Recensione Il terzo tempo

Enrico Maria Artale fa il suo esordio nel lungometraggio con un film sportivo dai risvolti drammatici

Recensione Il terzo tempo
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Il Lorenzo Richelmy de La terra e il vento (2013) è Samuel, ragazzo nato e cresciuto in condizioni difficili e violente che non ha mai conosciuto il padre e ha avuto soltanto un fugace rapporto con la madre tossica, finendo per entrare ed uscire dal carcere a causa di furti e altri piccoli reati.
E’ sulla sua figura che si concentra in particolar modo il primo lungometraggio diretto da Enrico Maria Artale, vincitore del Nastro d’argento per il cortometraggio Il respiro dell’arco, destinato a proseguire con la decisione da parte del magistrato di sorveglianza di inserirlo, in seguito all’ennesimo periodo di reclusione, in un programma di riabilitazione presso un’azienda agricola di un paese di provincia.
Destinato, quindi, a tirare presto in ballo la figura del suo supervisore Vincenzo alias StefanoRoberto SuccoCassetti, vedovo che si divide tra lavoro, incarico di allenatore della squadra locale di rugby e la figlia adolescente Flavia, incarnata da Margherita Laterza e volta ad instaurare un certo legame con il giovane.
Giovane che, adattandosi difficilmente alle regole dell’azienda e ai suoi ritmi e obblighi, Vincenzo convince a cimentarsi in mischie, calci piazzati e mete, nonostante i primi allenamenti si rivelino un fallimento e non sembri appartenergli la mentalità del gioco di gruppo.

Una vita in gioco

E, mentre il cast include anche l’Edoardo Pesce della serie televisiva Romanzo criminale, nel ruolo di Teresa è la vincitrice del David di Donatello Stefania Rocca a gestire la squadra, man mano che lo script si concentra in particolar modo sul rapporto progressivamente instaurato dal protagonista sia con Vincenzo che con sua figlia e che, giorno dopo giorno, inizia a capire che lo sport può dargli una possibilità di rinascita e una nuova vita, nonostante i molti ostacoli ancora da superare.
Perché, in fin dei conti, la pellicola di Artale, storia di riscatto e passione, non punta altro che a far assumere al rugby un significato che va oltre il semplice agonismo sportivo, diventando una metafora dell’esistenza e della voglia di tornare a sperare.
Concretizzando novantasei di visione che, non privi di occasioni volte alla risata (citiamo soltanto la sequenza in cui i poliziotti fermano il furgone per la strada), risentono in minima parte di ritmi narrativi da fiction televisiva, ma riescono nella tutt’altro che facile impresa - soprattutto nello stivale tricolore d’inizio terzo millennio - di manifestare un look decisamente internazionale.
Un look che, per merito anche dell’uso che viene fatto della colonna sonora e dei ralenti, poco li fanno distaccare da analoghe produzioni d’oltreoceano, riconfermando il forse poco condiviso ma decisamente veritiero pensiero che Aurelio De Laurentiis - finanziatore dell’operazione insieme al figlio Luigi - possieda tutte le carte in regola per poter essere considerato il corrispettivo nostrano di Jerry Bruckheimer.
Ovviamente, Jerry Bruckheimer quando produce Il sapore della vittoria (2000) e Glory road - Vincere cambia tutto (2006), non la saga dei Pirati dei Caraibi e Il mistero dei templari (2004).

Il terzo tempo E’ una rilettura della sempreverde House of the rising sun a introdurre il lungometraggio d’esordio di Enrico Maria Artale, di cui il regista osserva: “Il terzo tempo è un film che riunisce diversi generi attorno ad una emozione: la palpitazione giovanile di chi sente, per la prima volta, che le cose possono veramente cambiare. E così il film sportivo o il film sociale di derivazione carceraria, la commedia sentimentale o il dramma familiare, si intrecciano indissolubilmente in un racconto dove ogni personaggio è segnato da un conflitto interiore, il cui accostamento arriva a produrre situazioni imprevedibili, a volte dure, a volte divertenti; dove a trionfare in un modo o nell’altro è sempre l’istinto di sopravvivenza, l’incontenibile desiderio di vivere”. Alle sue parole, che sintetizzano perfettamente l’insieme, possiamo soltanto aggiungere che il tutt’altro che disprezzabile risultato finale possiede il grande e non trascurabile pregio di sfoderare un look decisamente internazionale. Cosa non da poco per la Settima arte italiana d’inizio XXI secolo, sempre più strangolata nella morsa di un evidente provincialismo.

6.5

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