Ci sono film che entrano di diritto nella Storia del Cinema. Il Torino Film Festival, nella sezione Figli e Amanti, sceglie di riproporre classici del passato col commento di attrici e registi italiani. Il comunicato ufficiale recita esattamente così "La nascita di una passione, il colpo di fulmine, la visione di un film che ha scatenato una vocazione, il debito che il cinema di oggi paga al cinema del passato e ai suoi maestri. A tutto questo è dedicata la sezione Figli e Amanti che, quest'anno, mette in coppia un regista e un attore che hanno lavorato insieme e che insieme commenteranno un film che li ha particolarmente uniti." Una sezione della manifestazione senza dubbio da apprezzare, vista anche la possibilità di rivedere in sala pellicole leggendarie, tra le quali, quest'anno, il Capolavoro western di Sam Peckinpah, il mitico Il mucchio selvaggio, presentato per l'occasione da Francesca Comencini e Filippo Scicchitano. Everyeye naturalmente non poteva sottrarsi dal ricordare un'opera così radicata nell'immaginario di ogni cinefilo che si dichiari tale...
"Tutti sognano di tornare bambini, anche i peggiori fra noi."
Texas, 1913. Il bandito Pike Bishop (William Holden) e la sua banda svaligiano una banca della ferrovia. Ma durante la rapina vengono colti di sorpresa da un gruppo di cacciatori di taglie, capeggiati dall'astuto Deke Thornton (Robert Ryan), vecchio partner di Pike, costretto a dare la caccia al suo ex compare per evitare il carcere. Il colpo riesce, ma non tutti sopravvivono: tra i fortunati il simpatico Dutch (Ernest Borgnine), i fratelli Gorch, Lyle (Warren Oates) e Tector (Ben Johnson), e il giovane messicano Angel (Jaime Sánchez). A loro si unisce poco dopo il vecchio Freddie Sykes (Edmond O'Brien), in attesa del loro ritorno con cavalli e provviste. Il colpo però si rivela un fiasco: invece dell'oro, i sacchi della banca contengono infatti delle semplici rondelle di metallo. La banda allora sceglie di oltrepassare il confine messicano, e stringe un patto con uno spietato generale dell'esercito, Mapache (Emilio Fernández) ai tempi in lotta contro i rivoluzionari di Pancho Villa. Pike e i suoi dovranno impadronirsi, in cambio di 10.000 monete d'oro, di un carico d'armi delle truppe americane. Ma non tutto andrà per il verso giusto...
"Meglio puzzare di cuoio e sudore , piuttosto che di gelsomino"
Non era più tempo di eroi. Di quel western epico e romantico che tanta fortuna aveva dato ai classicisti del genere, da John Ford a Howard Hawks, di pagine immortali di Cinema come Sentieri selvaggi e Un dollaro d'onore. Tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 il west viene demitizzato, perde quell'alone eroico in favore di una concretezza, a volte anche rude e scioccante, che toccherà i suoi estremi nello spaghetti western. Sam Peckinpah, al suo quarto film ambientato nella frontiera americana dopo La morte cavalca a Rio Bravo (1961), Sfida nell'alta Sierra (1961) e Sierra Charriba (1965), trova finalmente i mezzi e gli interpreti per realizzare il suo primo, immortale, Capolavoro. Su sceneggiatura dello stesso regista, che riadattò una versione scritta da Walon Green, tratta a sua volta da un racconto di Roy N. Sickner, vengono riscritte le fondamenta storiche del vecchio west, ponendo un manipolo di anti-eroi in una missione impossibile che trova il suo apice nell'incredibile finale, tutt'oggi ineguagliato in quanto a intensità dell'azione e potenza emotiva. Il mucchio selvaggio, primo esponente del dirty western, un cugino "sporco" dei suoi fratelli maggiori, ma non per questo privo di un innato romanticismo, di un onore fraterno che rimane ben saldo in questi "figli di buona donna", pronti ad opporsi alle ingiustizie al momento dovuto. Un racconto avvincente, sorretto da una regia incalzante fatti di ritmi serratissimi e di sparatorie memorabili, impreziosite dall'uso del rallenty (Peckinpah è tra i maggiori ispiratori di John Woo), e accompagnato da una fotografia d'eccezione, con paesaggi maestosi che mostrano i personaggi letteralmente divisi tra la sconfinata terra desertica e l'immensità del cielo, degna delle migliori opere fordiane.
"Se non siete capaci di stare insieme, siete finiti, siamo finiti."
Un mondo violento, basato sulla violenza, che viene sfruttata e subita a seconda delle circostanze, laddove la speranza sembra perdersi come neve al sole nelle retoriche e bacchettone frasi pronunciate da un pastore cattolico nei primi minuti: qui regna soltanto l'eterna dannazione, uccidi o sarai ucciso, ed è proprio in questo contesto che l'amicizia, seppur non priva di battibecchi e contrasti, assume un valore assoluto, come poi ben esplicato nell'ultima parte, fase cruciale divenuta un vero e proprio cult per milioni di cinefili. Peckinpah ha adottato una minuziosa ricostruzione storica, usando per le riprese luoghi reali, sedi di importanti avvenimenti storici, e come comparse persone proprie del luogo, ammantando il tutto di una autenticità ammirevole. Interessante anche il rapporto a distanza tra i personaggi di Bishop e Thornton, vecchi amici ora divisi dalle rispettive necessità, ma sempre legati da un profondo rapporto di amicizia e rispetto che sprigonerà le sue ultime battute nel toccante e liberatorio epilogo. Infine doveroso sprecare una lode enorme per la scelta del cast: da Holden a Borgnine, da Ryan a Johnson e Oates, fino a passare ai comprimari (strepitoso il grande O'Brien), il film vive di interpretazioni perfette, vere e proprie leggende del western e non solo alle prese con dei personaggi la cui caratterizzazione è stata curata con precisione sopraffina. In poche parole, un Capolavoro Selvaggio.
Un western cupo e violento, avvincente ed epico, dove nonostante la demitizzazione del genere emerge un romanticismo crepuscolare fatto di onore e amicizia che travalica tutt'oggi le barriere del tempo. Un Capolavoro assoluto della Settima Arte, diretto magistralmente (e ispiratore di molti registi odierni) e interpretato altrettanto, con un finale cui la parola Leggenda rende propriamente giustizia. Un west di uomini, carne, sangue e coraggio.