Il mondo di Arthur Newman, recensione del film con Emily Blunt

Un uomo inscena la propria scomparsa per crearsi una nuova identità ne Il mondo di Arthur Newman, ma liberarsi del passato non sarà facile.

Il mondo di Arthur Newman, recensione del film con Emily Blunt
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In sala il pubblico era elettrizzato per l’attesa di Colin Firth. E’ dovuto presentarsi Gianni Amelio, presidente del festival per l’ultimo anno, ad annunciare che la star britannica non sarebbe potuta venire. In sala si presenta anche l’amministratrice di Videa ed annuncia che distribuiranno il film in Italia, data ancora da definire. Torino ha rappresentato la seconda tappa, dopo il festival di Toronto, per il primo lungometraggio del regista Dante Ariola che, pur nutrito di un cast ricco e di spessore, non convince appieno.

NEW MAN

Arthur P. Newman è il nome falso che si attribuisce un imprenditore di successo, Wallace Avery (Colin Firth), pessimo marito e pessimo padre, quando si trova a simulare la propria morte per annegamento in modo da creare una nuova identità e gettarsi alle spalle un passato in cui non aveva più la forza per lottare. Golfista di talento, ha un piano pronto nei dettagli: guidare fino a Silver Lake, in California, per lavorare come istruttore presso il lussuoso circolo di golf di Fred Willoughby. Lungo il suo viaggio si imbatte però in una ragazza dalla bellezza ipnotica, Mike (Emily Blunt), in stato di semi-coscienza e con una gran rabbia verso il mondo. I due cavalieri solitari, Arthur e Mike, finiranno per gettarsi l’uno sulle spalle dell’altra, trascinandosi nel road trip verso le amene località californiane dove, su prati verde smeraldo, sfilano arroganti e indifferenti i ricchi esponenti di un’America che sta svanendo. Diametralmente opposti nelle abitudini e nel carattere, ma molto vicini in profondità e nel dolore, Arthur e Mike intrecceranno una relazione di doloroso affetto, cercando nell’altro le proprie colpe, intrufolandosi nelle case e nelle vite degli altri, fingendo di cambiare identità ogni giorno, divenendo lentamente solo l’ombra di se stessi. Uno in fuga da un lavoro che non sopportava più e da una famiglia in cui il figlio lo odiava e la ex-moglie ormai era solo un vago ricordo, l’altra che fugge da una famiglia molto sfortunata e dalla sorella gemella, in ospedale per schizofrenia paranoide, dal terrore di essere geneticamente legata a sua volta a questo disturbo. Ma mentre si crede ancora alla scomparsa di Arthur/Wallace, il figlio Kevin finisce quasi casualmente per trascorrere una notte in quella che era la casa del padre e a stretto contatto con la sua compagna Mina Crowley (Anne Heche), cominciando solo adesso a rimpiangere la figura di un padre per cui ha sempre provato rabbia.

FU MATTIA PASCAL

Un racconto di rimpianti, indecisioni, figure sbiadite e sofferenze. Non si trova nemmeno un personaggio positivo in tutto il film, non c’è una sola figura che non sia triste e sola. Non si tratta solo di Arthur e Mike, fuochi di questo ellisse e motore del film: arrancano nell’ombra la ex-moglie con una vita vuota, il figlio Kevin lasciato a se stesso, la compagna Mina privata dell’uomo che amava, fino a Fred Willoughby, il ricco e ammirato presidente di uno dei maggiori circoli di golf della California, apparentemente così caloroso e in realtà tanto freddo e cinico, scheletro vuoto di un businessman senza sentimenti. In questo inquieto affresco, Arthur Newman è il nome scelto non a caso da Wallace Avery per cominciare la sua nuova vita. Non solo per l’ovvia etimologia New Man, ossia “uomo nuovo”, ma anche come riferimento all’omonimo attore e baritono venuto a mancare nel 2000, e di cui forse si vuol prendere l’idea della recitazione, di un nome finto per una parte tutta da recitare. E se il tentativo di Wallace/Arthur di inscenare la propria scomparsa sembra poco credibile, appare spontaneo un collegamento a Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, in cui però l’occasione si profila inattesa e non creata (la morte di un sosia, la fortunosa vincita a Montecarlo), mentre nel film Arthur/Wallace prepara un macchinoso piano, raccoglie i risparmi di una vita, inscena la propria scomparsa. Con l’opera di Pirandello restano delle analogie, tra le quali la problematicità di una nuova identità (Arthur che viene respinto a Silver Lake perché non risulta esistente, Adriano Meis/Mattia Pascal che non può esporre denuncia a Roma), ma con una conclusione forse più ottimista rispetto al romanzo. Al fianco di Newman si inserisce il personaggio, assai meglio riuscito, di Mike, interpretato dalla splendida Emily Blunt che carica di fragilità e debolezze la propria creatura, mascherandola dietro una corazza di ira furiosa e violenza verbale. La pelle pallida, la debolezza fragile e il chiarore degli occhi così magnetici stridono con il modo bieco e rude della ragazza, cresciuta tra sofferenze e delusioni, lasciata per strada, terrorizzata dalla malattia della sorella, la sua seconda faccia. La relazione tra Arthur e Mike diventa un leccarsi di ferite, la ricerca di un rifugio. Nel loro on the road finiscono spesso e volentieri per pedinare persone semisconosciute, intrufolarsi nelle loro case vuote, indossare i loro vestiti e fingere di assumere le loro identità, violando anche quel simbolo sacro per la tradizione occidentale che è il giaciglio, letto matrimoniale che è simbolo di unione e di famiglia. E forse sono proprio questi gli unici personaggi positivi del film: loro, i “derubati” delle identità, gli individui che i due protagonisti scimmiottano. Perché trovano la forza di lottare tutti i giorni, con i propri demoni e per qualcosa di migliore. E nonostante la grottesca caricaturizzazione, Arthur e Mike lo sanno e non possono fare a meno di sprofondare in un baratro, nel loro continuo e forsennato cambio di identità. Il rischio è quello di scomparire e diventare l’ombra di se stessi, come Mattia Pascal. Per sempre.

Il Mondo di Arthur Newman In ultima analisi, materiale per creare un buon film ce n’era. Tuttavia la prova di Dante Ariola non convince del tutto. Il film risulta poco empatico, senza fraternizzare con lo spettatore. Popolato perlopiù di clichés (la fuga, il road trip, i problemi familiari, il figlio, la relazione con l’attraente Mike), risulta scontato e già visto. Restano la buona idea della nuova identità e del frugare in casa d’altri, ma non sono abbastanza nella fragile struttura del film. Colin Firth porta ancora con sé la sua immagine e la memoria del ruolo di Re Giorgio VI (Il discorso del Re) prima del proprio personaggio, ottima invece Emily Blunt (curiosamente, è anch’ella britannica come Firth e, proprio come lui, ha vestito i panni di un imperiale per The young Victoria). Nella sostanza il film risulta un po’ troppo indifferente e distante, a tratti anche noioso. E’ un peccato, perché con queste buone suggestioni poteva riuscire un ottimo prodotto.

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