Recensione Il Mistero delle Pagine Perdute

La caccia al tesoro secondo Disney

Recensione Il Mistero delle Pagine Perdute
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Se un prodotto funziona, va necessariamente riproposto in forma più o meno mutata, con il naturale obiettivo di bissarne gli incassi. Alla Disney lo sanno chiaramente benissimo e con questo nuovo National Treasure continuano imperterriti a cavalcare l'onda della narrativa seriale applicata al cinema, nel tentativo di riunire un considerevole numero di paganti in coda al botteghino. D'altronde l'entertainment ha le sue regole, il cui non rispetto, unito ad un'errata previsione di mercato, equivale ad ingenti e (talvolta) fallimentari danni economici.

Sin dall'avvento di quel buco nero spettatoriale che è stato per il grande schermo la televisione, Hollywood ha sempre cercato di distinguersi dal piccolo concorrente in una sorta di autoproclamazione snobistica di superiorità congenita, spesso coincidente con improvvisi 'balzi' tecnologici (taluni sperimentali) volti a risollevare le sorti della crisi di turno del settore. Ecco allora (in parte) spiegata l'improvvisa comparsa di formati schermici sempre più orizzontalmente estesi, dell'odorama, della stereoscopia, del suono multipista, sino ad arrivare alla recentissima computer grafica. Tutti escamotage che allontanano paurosamente l'esperienza in sala dalla controparte domestica, aumentandone a dismisura il grado di coinvolgimento emotivo e percettivo. Televisione e cinema però non viaggiano sugli esclusivi binari dell'idiosincrasia. I due mezzi si contaminano in un continuo gioco di rimandi citativi, contenutistici e linguistici. Sul finire degli '80 ad esempio alcune nuove serie-tv iniziano ad incorporare frequenti campi lunghi (es. lampante, le montagne di Twin Peaks) non propriamente adibiti al 4:3. In sala al contrario si fa spesso (ab)uso di primi e primissimi piani di derivazione ‘soap'. Ancora, X-Files nei '90 porta il concetto di serial oltre le sfere 'video' incorporando tecniche produttive specificatamente cinematografiche (si gira su pellicola, si cura la fotografia con illuminazioni addirittura espressioniste o da neo-noir eighties). La folle mente di Groening poi fa il resto, trasformando i Simpson in allucinante calderone postmoderno, straripante di citazioni 'sapute' e compiaciute, provenienti da un secolo di immagini in movimento. La Settima Arte, da par suo, 'si vendica' prendendo a prestito dalla sorellina minore alcuni formati narrativi di carattere seriale che alimentano la comparsa di seguiti, trilogie ed esalogie varie (principalmente ‘ad episodi' non disdegnando il ‘cliffhanging') destinata ad aumentare con il passare degli anni e che Il Mistero delle Pagine Perdute sintetizza alla perfezione sotto il 'brand' National Treasure.

La pellicola in esame è infatti seguito (anche se viste le premesse sarebbe più giusto parlare di 'nuovo capitolo' o 'puntata' se non addirittura di 'clone') dell'acclamato Il Mistero dei Templari uscito in data 2004 di cui ripropone il (costosissimo) cast con qualche celebre dipartita (Sean Bean) ed alcune nuove comparse (il 'cattivone' Ed Harris, la brava Helen Mirren). L'intento di dotare il duemila di un nuovo Indiana Jones era palese già dalla precedente incarnazione su celluloide, dove il nostro Nicolas Cage finiva con lo scoprire un esotico e molto bramato tesoro con tanto di biondissima (e sempre più simile a Sharon Stone) Diane Kruger a seguito. Il genere d'avventura, in mani esperte (quelle di Jerry Bruckheimer lo sono di sicuro) e sapienti, assicura un considerevole margine di successo e soddisfazione entertainment, purchè il sottile equilibrio psicologico dello spettatore legato ad esotismo ed improbabilità delle vicende non venga inavvertitamente spezzato. I film d'evasione devono necessariamente rendere credibile l'incredibile, pena il fallimento e l'inevitabile comparsa in sala di fragorose risate. Da evitare inoltre assolutamente, durante il viaggio dell'eroe, situazioni paradossali o cialtronesche soprattutto se non volute, perché lo humour è sì un elemento da sfruttare, ma va saputo fare. Ora, lo dico subito parafrasando scherzosamente il titolo, alcune pagine (produttive) di questo film sono andate, purtroppo e misteriosamente, perdute. Ma andiamo con ordine.

Le vicende ruotano questa volta attorno alla (ricca) famiglia di Cage, addirittura accusata di aver contribuito nel lontano Ottocento alla congiura che portò alla morte di Abramo Lincoln, sedicesimo (e repubblicano) presidente degli Stati Uniti assassinato sotto il grido (quasi accertato) di 'così sarà sempre per i tiranni!'. Il nome di un antenato dell'illustre 'casato' Gates (di nome Thomas) figura infatti tra le pagine ritrovate del diario dell'assassino e tanto basta per fungere da pretesto all'ennesima avventura a base di enigmi da risolvere, tavolette da decifrare, vite da salvare, gente da rapire, tesori da scovare, stando naturalmente attenti ai doppio-triplogiochisti del caso, ad inaspettati mutamenti di sorte e ad attività più o meno illegali da compiere giocoforza grazie (anche) all'amico hacker di turno, nella fattispecie belloccio ma nerd (Justin Bartha). Tale giostra pirotecnica di avvenimenti presenta però alcune gravi lacune che allontanano il film dall'approvazione/esaltazione piena. Nonostante il calibratissimo ed avvincente ritmo, questo secondo National Treasure soffre infatti di almeno tre gravi difetti di ordine narrativo: esasperazione delle ellissi, snodi narrativi assolutamente superficiali, personaggi costantemente tendenti al comico senza adeguate e riuscite battute a corredo. Avete presente uno che racconta una barzelletta e se la ride da solo? Bene. Alcuni passaggi recitativi risultano inoltre trascurati e mostrano una mancanza di coesione tra Cage, la Kruger e Bartha quasi imbarazzante, minata da espressioni annoiate o troppo posticcie. Sicuramente meglio si comportano Voight e consorte di trama Helen Mirren, ma la sensazione è che una strana aria di sufficienza abbia regnato sul set durante le riprese. Torniamo alle ellissi: nel corso di pochi minuti la pellicola è capace di trasportare lo spettatore dagli Usa all'Inghilterra, passando per la Francia, con una semplicità e banalità imbarazzanti. Va bene comprimere il tempo, ma che diamine. Per non parlare della facilità con cui i personaggi arrivano alla risoluzione di misteri e puzzle (alcune intuizioni più che 'divine' risultano 'patetiche') o al reperimento di oggetti importanti. Questi violano sistemi di sicurezza, rapiscono presidenti di stato, giocano con le forze dell'ordine con un non-sense impressionante. Sembra di assistere al carnevale del 'prosegui a tutti i costi la narrazione tanto il genere lo permette'. Il genere NON lo permette, soprattutto se l'ottanta per cento della pellicola ha un'ambientazione urbana e contemporanea. La città, ed in via generale la realtà, hanno delle regole ben precise che vanno assolutamente rispettate. L'unico modo per contravvenirvi riguarda lo sprofondamento delle vicende nel fantastico o nel sovrannaturale. Cosa che Book of Secrets non fa, essendo un film d'avventura ambientato ai giorni nostri in contesti vagamente familiari (gran parte degli edifici, stanze, salotti, mezzi di trasporto ed abbigliamento inquadrato è di natura 'aristocratica', insomma ci siamo capiti). Forse per questo funziona solo a tratti. Il finale, dal carattere esoticamente 'dungeon', funziona invece benissimo e coinvolge. E' un tripudio di suoni (ben realizzati), colori (fotografia sopra la media) e sensazioni (svelamento del tesoro ed azione a go-go). Il luna-park narrativo ha insomma ragione d'essere perché fuori dall'ordinario (siamo in un underground minerario adibito a fracassona disneyland). Per troppo poco però.

Il Mistero delle Pagine Perdute Book of Secrets si rivela purtroppo inferiore all’illustre predecessore e raggiunge, superandola, la sufficienza per la confezione patinata (il blockbuster c’è, si vede e si sente) ed un grande (diciamolo) ritmo, che dona agli eventi una frequenza parossistica sottolineata dalle ben realizzate musiche di Trevor Rabin. Si arriva così al mega-finale abbastanza fluidamente nonostante le varie cadute di tono (narrativo e recitativo) sparse qua e la nel corso degli eventi. Il clima natalizio lo fa insomma promuovere, ma la riserva, sicuramente, resta, e l’attesa di Kingdom of the Crystal Skull, inevitabilmente, continua.

6.5

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