Recensione Il grande Gatsby

Leonardo Di Caprio è Jay Gatsby nella rilettura postmoderna del capolavoro di Fitzgerald

Recensione Il grande Gatsby
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New York, 1922. Nick Carraway si trasferisce nell'ex casotto di un guardiano a West Egg (Long Island) - nel quartiere dei ‘nuovi ricchi' - con pochi spicci in tasca e il sogno di diventare scrittore, nel cassetto. Al di là della baia, segnalata di notte dalla luce verde di un faro, spicca invece maestosa la tenuta dei Buchanan, abitata da sua cugina Daisy e dal di lei nobile e ricco marito Tom (ex campione di polo), dove Nick avrà modo di scrutare da vicino l'indifferenza della ricchezza nonché di conoscere la bella golfista Jordan Baker. Ma ben presto a catturare l'attenzione di Nick sarà l'enorme dimora del suo misterioso vicino, un uomo apparentemente ricchissimo trasferitosi da poco in quella sorta di castello che sembra dominare l'intera baia. Un luogo quasi magico dal quale cominceranno a fluire fiumi di champagne per feste traboccanti di invitati altolocati, e insieme alle quali si diffonderanno anche le numerose leggende in merito all'uomo proprietario di tutto quel fasto. Sul conto di Jay Gatsby, trasferitosi in quell'angolo di West Egg per contemplare la luce verde che riluce dall'altro capo della baia, inizieranno infatti a rincorrersi le voci più variegate, che lo additeranno come eroe di guerra e gentiluomo prima, contrabbandiere e assassino poi. Ma tra le tante leggende sulla sua persona e sulle origini della sua strabiliante ricchezza solo Nick Carraway riuscirà a scoprire la verità, attraverso i bagliori di un'amicizia breve ma molto simbolica, nata una sera con l'invito a una delle sfavillanti feste organizzate dal misterioso e ricchissimo vicino di casa.

Il tripudio audiovisivo di Luhrmann

Francis Scott Fitzgerald e Baz Luhrmann, due mondi agli antipodi, la pienezza della carta e la volatilità dell'immagine che s'incontrano (e scontrano) in una pellicola di oltre due ore che amplifica ed estremizza (visivamente) il minimalismo esistenziale del capolavoro di Fitzgerald. Ripartendo (e chiudendo) dalla luce verde che del romanzo incarna speranza e illusione, Luhrmann mescola l'incanto visivo e musicale del Moulin Rouge con la forza contemplativa del personaggio di Jay Gatsby, uno degli eroi romantici e tragici più belli che la letteratura ci abbia mai consegnato. Luhrmann rilegge suoni e colori dell'età del Jazz, ‘ammodernando' e avvicinando il romanzo scritto tra il 1923 e il 1924 al gusto visivo e musicale odierno. Ed è forse proprio il processo di trasformazione e amplificazione che Luhrmann compie ripercorrendo le tracce del suo riconoscibilissimo stile a rappresentare il valore aggiunto ma anche il limite del suo Il Grande Gatsby; un limite ‘figurativo' che in realtà si origina anche (e soprattutto) da un cast che rappresenta perfettamente il gusto moderno ma che in (buona) parte tradisce la fisionomia ‘polverosa' dei protagonisti del romanzo ambientato nei Roaring Twenties. L'aspetto giovane e (fin troppo) tenero del binomio Di Caprio-Mulligan tenta ma non riesce fino a fondo a farsi carico della spossatezza e della tensione che Fitzgerald imprime ai suoi protagonisti sin dalle prime pagine e per tutta la storia del misterioso Gatsby e del suo sogno perduto. Il film di Baz Luhrmann spezza il classicismo dell'opera letteraria con una sinfonia di suoni e colori che anche grazie all'uso del 3D porta lo spettatore in scena e per mano attraverso il tripudio estetico di un mondo prima costruito e poi smantellato e che assume il gusto tutto disneyano di una fiaba, ma senza lieto fine. La dimora di Gatsby è infatti un castello di fata che si anima attorno alla magia (effimera) della sua ricchezza, mentre la valle delle ceneri un luogo stregato che non contempla la possibilità di vita.

Il Grande Gatsby o il Grande Luhrmann?

Non è possibile dire che Luhrmann non sia coerente o efficace nella costruzione di un mondo che dai costumi alle musiche (la colonna sonora che include tra gli altri Lana del Ray e Bryan Ferry, Gotye e Florence + The Machine è già un vero e proprio cult) segue il preciso itinerario dell'irruenza audiovisiva. È però d'altro canto incontrovertibile che la ricerca ossessiva di una messa in scena pomposa, a lungo andare, travolge il minimalismo esistenziale del romanzo, costruito attorno a poche, incisive immagini di ostentata e noncurante ricchezza da un lato e polverosa e impotente povertà dall'altro. Ed è come se a un certo punto il carosello in continuo movimento messo in piedi dal visionario Luhrmann trasfigurasse la sostanziale staticità del romanzo di Fitzgerald, mancando di restituirne il dramma più sottile scaturito non tanto dalle voci quanto dai silenzi e dalle allusioni narrative. La grandezza di un classico che si nutre prima di tutto delle tragica contemplazione di un mondo ‘marcio' ingentilito per un attimo dalla ‘incorruttibile speranza' di Jay Gatsby si perde così nel bombardamento audiovisivo abilmente ricreato da Luhrmann. La forza del romanzo infine resiste ma in una forma diluita che trova la sua strada (non potrebbe essere altrimenti) nell'imperativo che ancora oggi possiedono l'incipit e (soprattutto) la chiusura dell'opera scritta. In questo senso è anche la sorta di cornice metanarrativa nella quale Luhrmann sceglie d'inscrivere la storia a rendere ancora più arduo il processo di fusione tra film e romanzo. A conti fatti l'opera del regista australiano è senz'altro un buon prodotto d'intrattenimento sapientemente gestito con talento visivo e artistico, ma non è il Grande Gatsby, e forse si tratta più plausibilmente del Grande Luhrmann. Il Grande Gatsby continua infatti a vivere una vita propria ben distinta, stentando comunque a riconoscersi nell'opera di trasposizione di Luhrmann che coglie alcuni aspetti del romanzo ma non appieno la sua identità narrativa. E Il Grande Gatsby di Fitzgerald (senza dubbio refrattario, come ogni capolavoro letterario, alla ‘riduzione' filmica) sta forse proprio in un ‘luogo' ancora non ben identificato che si trova a metà strada tra l'eccessivo immobilismo del film di Clayton e la pomposa animazione del film di Luhrmann, in una 'terra di mezzo' che solo i grandi capolavori sanno svelare. D'altronde è stata e rimane proprio la tensione verso un passato impossibile da riprodurre la vera chiave del romanzo e ciò che ancora oggi ci induce a "...remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato" e per sempre in attesa di un Grande Gatsby ancora da (ri)vivere.

Second Opinion, a cura di Antonella Murolo

Il Grande Gatsby è uno di quei film che ha bisogno di essere metabolizzato, va lasciato a decantare nella mente per un po' prima di capirci davvero qualcosa. Bisogna che le speranze e gli affanni dei suoi protagonisti sedimentino tra le nostre sinapsi emotive, troppo confuse e sovraeccitate da feste alcoliche e colori vibranti. È un lavoro multistrato, degno figlio di due mentalità complesse e poco lineari come quelle di Baz Luhrmann e F. Scott Fitzgerald, che segue un andamento ondulatorio tra grandi picchi e momenti che, al confronto, appaiono morti e denaturati. Eppure Luhrman segue la stessa strada già percorsa dallo scrittore americano, cadendo negli stessi tranelli, aggrappandosi agli stessi punti di forza, eppure rivoluzionando il modo apparente con il quale entrambi hanno cercato di raccontare qualcosa di fortemente emotivo, puro nel suo stato solitario e irrimediabilmente corrotto in quello sociale. Il 3D, la colonna sonora manipolata nella strutturazione del genere musicale, le pennellate di luce e colore troppo vivide per il classico buio della sala: sono tutte cose che possono ammaliare o disturbare, ma il concetto base rimane uno. Il Grande Gatsby di Baz Luhrman può piacere o meno, ma alla fine dei conti è lo specchio (rubato forse da un parco divertimenti) de Il Grande Gatby di Fitzgerald.

Il Grande Gatsby Arriva finalmente nelle sale l’attesissimo The Great Gatsby a firma del regista australiano Baz Luhrmann. Come prevedibile si tratta di un lavoro che applica al classicismo del romanzo un gusto e un allure decisamente postmoderni, garantendo da un lato l’intrattenimento e sfigurando dall’altro l’anima del Gatsby di Fitzgerald, eroe romantico sopra ogni cosa. Si tratta infatti di un film così traboccante di spunti visivi ed estetici da soffocare in qualche modo l’identità silente e solitaria del Jay Gatsby nato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald.

6.5

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