Recensione Il discorso del re

Tom Hooper dirige un regale Colin Firth nei panni del balbuziente Giorgio VI

Recensione Il discorso del re
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Punta in alto Tom Hooper, un solido curriculum televisivo e due film per il cinema alle spalle, con Il discorso del re (che ha già fruttato a Colin Firth un Golden Globe e che potrebbe anche permettergli di portare a casa un meritato Oscar) capace di coniugare l'eterea regalità inglese (in particolare quella intramontabile di casa Windsor) al fascino esoterico di un'amicizia inconsueta tra un piccolo e un grande uomo che giocano a scambiarsi di ruolo sullo sfondo di un'Inghilterra anni '30 uggiosa e volubile. 

The King’s Speech

Inghilterra 1936. Alla morte del re Giorgio V (Michael Gambon), e dopo la ‘scandalosa' abdicazione al trono del suo primogenito Edoardo VIII (risoluto a sposare la pluri-divorziata americana Wallis Simpson), il secondogenito ‘Bertie' (Duca di York e futuro re Giorgio VI), si ritrova a dover prendere in mano le redini di un'Inghilterra in tumulto, alle soglie della seconda guerra mondiale. Purtroppo Bertie soffre, sin da quand'era piccolo, di una grave forma di balbuzie nervosa che gli ha causato non solo l'alienazione del padre e un insanabile senso d'inferiorità nei confronti del più spavaldo fratello, ma anche seri problemi di ‘pubblica' comunicazione. Visto il cruciale momento storico che lo attende, al quale si aggiunge l'allure mediatica dell'avvento della radiofonia, il re in fieri, essendosi già consultato invano con fior di esimi logopedisti, si rivolgerà su suggerimento della premurosa mogliettina (una pomposa e compita Bonham Carter), all'eccentrico terapista australiano Lionel Logue (Geoffrey Rush), noto per i suoi non ortodossi metodi terapeutici. A fronte di un rapporto burrascoso che si mostrerà a più riprese conflittualmente costruttivo, i due uomini si ritroveranno infine a viaggiare sulla stessa linea d'onda, accomunati dalla volontà di dar sfogo alla renitente voce del nuovo re (per caso) d'Inghilterra. Saranno i prodromi di un'amicizia sincera e duratura, testimone non solo del primo, ufficiale discorso del re che guiderà la nazione unita contro la Germania nazista, ma anche del crescendo di una solida ‘voce' regale, infine libera dal fardello della balbuzie, che sosterrà la nazione in un importante e tormentato periodo storico segnato dal Secondo Conflitto Mondiale.

Duetti di personalità

Tom Hooper è un regista ancora poco conosciuto internazionalmente, ma già molto amato in terra inglese per le sue raffinate ‘operazioni' televisive (Elizabeth I, Longford e John Adams) e due film per il cinema (Red Dust con Hilary Swank e la recente biografia sportiva Il maledetto United). In tutti i succitati lavori, il giovane regista inglese ha saputo catturare i favori del pubblico riportando su schermo l'eloquenza visiva di personaggi di indubbio carisma (si tratta sempre di lavori perlopiù biografici), rievocati da attori di grande tempra artistica (basti pensare alla Hellen Mirren di Elizabeth I o al Paul Giamatti di John Adams), fotografandoli non solo nei loro ruoli ‘istituzionali' ma soprattutto nella loro complessità umana, fatta di grandi debolezze e incredibili passioni. Anche in questo film, confermando la regola del ‘duetto di personalità' (la caratteristica di Hooper è quella di soffermarsi ad analizzare i suoi personaggi tramite legami molto forti che mettono in risalto tutte le loro peculiarità caratteriali, come il rapporto passionale e burrascoso tra Elizabeth I e il suo Earl of Essex o il sodalizio lavorativo tra l'allenatore Brian Clough e il suo fidato assistente Peter Thomas Taylor), Hooper sceglie di non battere la strada del resoconto agiografico del regnante, ma di studiare piuttosto le complessità interiori dell'uomo attraverso l'occhio di una persona a lui vicina, ovvero l'eccentrico logopedista Lionel. Tramite il filtro osservativo di Lionel (l'unico che si prenderà sin da subito numerose libertà, come quella di rivolgersi al re con un più che informale ‘Bertie'), Hooper ci mostra un re affascinante e spigoloso, diffidente e generoso, gravato dalle difficoltà personali e nazionali, che nelle fattezze di Colin Firth rivela tutto il senso di (in)adeguatezza provato per il ruolo cui è suo malgrado chiamato, e per il quale dovrà affrontare e superare molte delle sue remore. E sarà proprio grazie al mix di ‘sedute' terapeutiche (esercizi di scioglimento fisico-mascellare) e schermaglie umane con il suo bizzarro terapista che il re imparerà, giorno dopo giorno, a non temere il giudizio altrui e a fidarsi invece delle proprie doti. Un impervio percorso di maturazione che lo porterà a ritrovare il ritmo del suo eloquio e di conseguenza anche se stesso.

Tra storia pubblica e privata

Il fine lavoro registico di Hooper non riguarda solo la vivida caratterizzazione del suo Giorgio VI, abilmente rievocato dalla grande prova attoriale di Firth, ma anche la perizia narrativa con cui questi inquadra e cesella le peculiarità di una nazione che si fa specchio di un'intera epoca. Piogge e foschie tipicamente londinesi si alternano agli spazi mai troppo maestosi di interni sobri e misurati, quasi a voler ritrarre un cupo mondo a misura d'uomo, corredato da scale, ascensori e vetri d'epoca, su cui s'infrangono i riflessi di due storie, una pubblica l'altra privata, che si fondono in un'unica voce storica, solennemente testimoniata dal ‘discorso' di un Re che sarà per sedici, cruciali anni alla guida di quell'aristocratica Inghilterra radicata nelle opere di Shakespeare e nel grigiore dei suoi brumosi viali alberati. Tonalità, vocalità e personalità sono dunque la materia prima che Hooper plasma al meglio con una regia attenta e mai banale, in equilibrio tra comico e drammatico, affidando infine alla bravura del duetto Firth-Rush il compito di dare anima e corpo a un'opera (modulata sulle note dell'ottima score originale del francese Alexandre Desplat e storicizzata dalla fumosa e opaca fotografia di Danny Cohen) che non solo convince, ma a tratti rapisce.

The King's Speech Adorato dal pubblico inglese per i suoi encomiabili prodotti televisivi, Tom Hooper dirige con il suo inconfondibile tocco british un refrattario Colin Firth nei panni del balbuziente re Giorgio VI. L’ottima e poliedrica regia, gli incisivi e pungenti dialoghi e soprattutto il brillante duetto messo in piedi dai due magistrali protagonisti (Colin Firth e Geoffrey Rush) fanno del film di Hooper un piccolo capolavoro (in odore di nomination all’Oscar) che ha grandemente affascinato il pubblico inglese e non mancherà di affascinare il pubblico nostrano. Speriamo solo che in fase di doppiaggio non si perda tutto l’ardimento comunicativo offerto da un Colin Firth abilmente ingessato nel suo regale tartagliare.

8.5

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