Il diritto di contare: la recensione

Un episodio poco conosciuto della Storia americana arriva al cinema in un film convenzionale ma comunque avvincente.

Il diritto di contare: la recensione
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Con un po' di ritardo, post-Oscar, arriva anche nelle sale italiane Il diritto di contare (un titolo che, come l'originale Hidden Figures, può essere letto in più modi), pellicola che ha conquistato il pubblico americano - ad oggi è il più visto, negli Stati Uniti, tra i nove lungometraggi candidati all'Oscar per il miglior film quest'anno - e smorzato, in sede di nomination agli Academy Awards, la polemica sul presunto "razzismo" di chi assegna i premi più prestigiosi dell'industria cinematografica negli USA, essendo uno di tre film prevalentemente black - insieme a Barriere e Moonlight - ad aver fatto breccia nel cuore dei membri votanti (salvo poi rientrare a mani vuote, a differenza dei due colleghi). Un prodotto dignitoso, interessante più a livello narrativo che sul piano tecnico, dal contenuto comunque non indifferente, anche alla luce del contesto storico, sociale e politico in cui ci troviamo (soprattutto per quanto riguarda l'America, dove decretare il successo di un film incentrato su personaggi femminili forti - e realmente esistiti - è anche una sorta di messaggio nei confronti di una presidenza dalle vedute ufficiali a dir poco retrograde).

Al passo coi tempi

Il secondo film da regista di Theodore Melfi, già autore della commedia St. Vincent, ripete gli stessi errori dell'opera prima, essendo più un buon esercizio di scrittura (nel caso de Il diritto di contare c'è stata anche la candidatura apposita agli Oscar) e un ottimo contenitore di grandi interpretazioni che un'ostentazione di particolari ambizioni registiche. Una scelta in parte comprensibile in questa sede, poiché Melfi ha tra le mani un soggetto forte - la storia vera di Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, tre donne di colore specializzate in matematica che ebbero un ruolo fondamentale ma finora per lo più ignoto in seno alla NASA a partire dal 1961 - e un buon gruppo di attori: le tre protagoniste Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monaé (vista anche in Moonlight), e comprimari di lusso come Kirsten Dunst, Kevin Costner e Mahershala Ali (senza dimenticare Jim Parsons in un ruolo serio). Soprattutto il trio centrale, che sfrutta perfettamente i punti di forza specifici di ciascuna interprete per creare un equilibrio di carisma, determinazione e intelligenza, giustifica e rende tollerabile l'approccio abbastanza didascalico ma mai inerte di Melfi, al servizio del principio di una buona storia raccontata (mediamente) bene. L'amore dell'Academy in sede di candidatura è forse stato un po' eccessivo, almeno per quanto concerne il premio più ambito, ma rimane un discreto prodotto di entertainment con una dose abbondante di cuore e cervello, ideale soprattutto per chi si interessa a capitoli inediti di Storia americana.

Il Diritto di Contare Theodore Melfi porta al cinema un'avvincente storia vera, senza troppe ambizioni autoriali ma con un buon gusto per i dialoghi e un'ottima direzione degli attori, soprattutto le tre interpreti principali scelte per questo racconto d'altri tempi che a suo modo è tuttora attuale, alla luce di recenti situazioni politiche internazionali.

7.5

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