Recensione I kori

Una grande prova, quella di Anastopoulos, che avrebbe meritato più attenzioni nel corso dell'ultima Berlinale

Recensione I kori
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Di tutti i film visti alla 63esima Berlinale, è probabilmente il greco I kóri, letteralmente La figlia, il titolo più interessante presentato nella sezione Forum. Classico esempio di film che parte da premesse usuali e strutture convenzionali, di fronte alle quali temi già di star vedendo il titolo sbagliato, ma poi -sorpresa! Emerge uno smalto e un carattere che non ti saresti mai aspettato. Questa selvaggia creatura greca (selvaggio è proprio l’attributo corretto, per il tono e la materia trattata) si avvicina quatta e paziente come un predatore professionista, per poi spalancare le fauci e passare all’offensiva. Se quindi a inizio film poteva sembrare l’ennesimo lungometraggio con interminabili sequenze di steady-cam a scorrazzare alle spalle di personaggi silenziosi e in continuo movimento, ecco che il lavoro di Thanos Anastopoulos rivela tutt’altra natura. Sembrava l’ennesima denuncia sociale imbruttita, puro realismo squadrato, e invece la crisi greca trova in questo film espressione efficace e non convenzionale. Laddove Terrados (che ha sfilato anche a Torino) ha fallito nel cercare di incarnare il risentimento e le paure della crisi spagnola, The Daughter riesce, avvalendosi di pretesti narrativi insoliti e di un linguaggio che si fa sempre più brutale e perverso.

GRECIA ANNO ZERO

Myrto (Savina Alimani) ha a malapena quattordici anni ma ha carattere e sul volto è disegnata la fierezza brutale e un po’ mascolina di chi è stato abituato a crescere in condizioni non facili. Si prenda cura di Aggelos (Aggelos Papadimas), figlio di otto anni del collega di lavoro del padre, e passa il resto del tempo a vagabondare in bicicletta. Un giorno però suo padre sparisce: lei lo cerca ovunque ma sembra essersi volatilizzato. Un grosso catenaccio arrugginito sigilla l’ingresso della falegnameria in cui il padre con il genitore del piccolo Aggelos. Un panico silenzioso comincia a mormorare nella mente astuta e già sospetta di Myrto, che cerca notizie dalla madre separata, menefreghista e indifferente, quindi dal collega di suo padre e la sua compagna. I sospetti si fanno concreti: il padre è fuggito per non dover rendere conto dei debiti contratti con la bancarotta dell’azienda. Incapace di arrendersi, Myrto attribuisce al padre di Aggelos la colpa del fallimento e quindi della “latitanza” del padre. In gran segreto sequestrerà il piccolo Aggelos all’uscita da scuola, rinchiudendolo proprio nell’epicentro di tutti i tormenti del film: la falegnameria in disuso, pronta ad essere smantellata. Quello che comincia come un pallido rapimento mascherato per tentare di rovesciare i debiti del padre sul suo ex-socio finisce però per diventare il letale coacervo di tutte le furie e le incertezze di una generazione impaurita ed abbandonata a se stessa nella Grecia del crollo economico...

SENZA NOMI E SENZA LUOGHI

La caratteristica sorprendente del film è la cura per i dettagli, il grande potere allegorico che veste mediante una costruzione poietico-geometrica ben realizzata. Che il film si elevi a spanne assai più alte della singola vicenda lo certifica non solo una qualità tecnica nella recitazione, nella fotografia e nel montaggio capace di convincere l’occhio ormai esperto dello spettatore saturo d’immagini del giorno d’oggi, ma soprattutto i simboli e la costruzione del mondo del film: solo i due giovani protagonisti sono dotati di nomi, Myrto e Aggelos, mentre i restanti sono marchiati come vaghe e sfocate creature esistenti solo in funzione di un ruolo. Appare dunque emblematico che l’onomastica premi con nome proprio solo i due protagonisti, unici ragazzini del film, a dimostrare che la narrazione denuncia le storpiature nella crescita delle nuove generazioni in un clima di feroce accanimento alla sopravvivenza, di affamati cani intenti a sbranarsi a vicenda (tanto più che Myrto è riferimento a una compagna di Socrate, Aggelos è un nome del Nuovo Testamento). Sono così l’alfa e l’omega dell’ultimo gradino della piramide sociale, i grandi innocenti di un gioco di perversioni che non possono comprendere. E durante il quale si ritorcono simboli su simboli, il più evidente dei quali è Aggelos legato come se fosse crocifisso. Vera e propria co-protagonista di prepotenza è la falegnameria, presente in quasi una scena su due, luogo del lavoro artigianale ed operaio, elevata a simbolo della crisi economica e dei suoi errori. La location è suggestiva e perfetta, fiotti di luce tra le travi squarciano il buio imperante di quell’ambiente soffocante e stretto in cui tutto sembra rimandare alla mutilazione della natura, con il legno (e quindi le foreste, gli alberi, direttamente citati dal film con esplicite sequenze di abbattimento di foreste) tagliato da lame rotanti. Una efficace allegoria raffinata e inusuale di un tremendo quadro storico e sociale purtroppo attuale.

I kori Una grande prova di Anastopoulos che avrebbe meritato più attenzioni nel corso del festival, spesso e volentieri troppo concentrato sulle sezioni patinate e meno su quelle outsider, che non hanno timore di rischiare e sperimentare. In tutto il film colpisce non ultima, oltre alla storia e a una protagonista pressoché perfetta, una realizzazione tecnica notevole, comprensiva di un serrato inseguimento in bicicletta da applausi.

8

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