Recensione I Gatti Persiani

Un viaggio nella musica per scoprire l’anima underground di Teheran

Recensione I Gatti Persiani
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In Iran fare musica è proibito, portare cani o gatti a spasso è proibito, girare un film come I Gatti Persiani, del regista curdo-iraniano Bahman Ghobadi, è a dir poco impensabile, tanto impensabile che l'autorizzazione per girare non è mai arrivata. Eppure Ghobadi, conosciuto e largamente apprezzato per il bellissimo Il tempo dei cavalli ubriachi (del 2000), questo film ha deciso di farlo, sancendo altresì il suo inevitabile esilio. Sceneggiato insieme alla fidanzata Roxana Saberi, la giornalista statunitense di origine iraniana arrestata (e da poco rilasciata) con l'accusa di spionaggio, e girato in soli diciotto giorni con una telecamera digitale, I Gatti Persiani è una profonda dichiarazione d'amore per la musica ma anche un affresco di vite in continuo divenire, scelte per mostrare al mondo l'energia che anima l'Iran e che viene sistematicamente soffocata dall'attuale governo teocratico, responsabile anche del recente incarceramento del regista Jafar Panahi. Come lo stesso Ghobadi ha dichiarato, per lui "L'Iran è come una giovane ragazza bella, intelligente, dinamica, cui è stato fatto indossare un pesante chador e occhiali scuri. La sua immagine non è moderna, non è attraente. Ma sotto quegli abiti è ancora lei, e merita di essere scoperta".

Teheran: la città dove tutto ciò che vedi ti provoca

Due ragazzi, Negar e Askhan, sognano di fare musica ma il regime iraniano lo impedisce con ogni mezzo, non ultima la detenzione. Appena usciti di prigione, risoluti a non mollare, i due giovani decidono di organizzare l'espatrio, con l'idea di raggiungere Londra e realizzare nella capitale inglese il sogno di fare musica indie-rock. Ma con pochi soldi e senza documenti, l'ambito espatrio sembra una chimera. S'imbatteranno in un traffichino tuttofare, Nader, che farà creder loro di poter facilmente sistemare tutto, compresa la questione dei documenti, apparentemente risolvibile grazie a un losco figuro che sforna passaporti e visti dietro esosi compensi da listino. E se Negar è tormentata dalla sensazione che qualcosa possa non funzionare, Askhan è più fiducioso nella riuscita del loro progetto di ‘fuga'. Mentre i due battono Teheran alla ricerca di altri componenti per il gruppo, sembra prender corpo anche l'idea di un concerto underground ‘d'addio' alla loro città. Ma basterà che qualcosa nella fragile catena di eventi s'interrompa perché l'ombra minacciosa del regime si riappropri dei loro sogni.

Uno sguardo sofferto e partecipe

Diviso tra documentario (sia vicende che personaggi si ispirano alla realtà), film (un intelligente montaggio segue l'incalzante ritmo della musica), e videoclip (molti i momenti in cui coreografie e musiche rubano la scena agli attori), I Gatti Persiani, vincitore tra l'altro del premio speciale nella sezione Un Certain Regard al festival di Cannes, è un'opera che si discosta dalla tempra raffinata e autoriale che siamo abituati a ravvisare nel cinema iraniano, il cinema poetico cui ci ha educati un regista come Kiarostami (al fianco del quale Ghobadi ha lavorato per Il vento ci porterà via e dal quale ha senza dubbio mutuato una particolare attenzione per l'inquadratura). Per essere un'opera realizzata con scarsi mezzi e tempi striminziti, non mancano interessanti trovate registiche, come la scelta di non far mai comparire sulla scena la polizia, che incombe ciò nonostante come un'ombra nefasta sulla città, o il ricorrente uso dello sfocato, che lascia spesso il campo alla sola musica, quale vera protagonista del film. Ma I Gatti Persiani è un coraggioso tentativo di denuncia prima ancora che un film. Ghobadi esula dall'opera in quanto tale per cercare, attraverso uno stile da pamphlet politico, l'attenzione e il sostegno del mondo, costringerci a vedere l'Iran attraverso i suoi occhi, più consapevoli di ciò che realmente accade. E lo fa con un'opera che arriva dritta al cuore con la forza della musica, e ci trascina di peso in una realtà ostile - dove quasi tutto è vietato e quasi niente permesso - con un'impensabile energia, senza tirare in ballo pietismi o compassione. Se in Il tempo dei cavalli ubriachi il regista guardava all'Iran attraverso lo sguardo sofferente e straziante dei suoi piccoli protagonisti, vittime di un mondo ostile che li scaraventa nell'età adulta e nella miseria senza pietà alcuna, qui lo sguardo - sofferto e partecipe - vuole essere di denuncia ma anche di incoraggiamento, un modo per esprimere i malesseri di una società nella quale vibrano i prodromi del cambiamento ma che necessita di sostegno per concretizzarlo. Ed è attraverso i colori, il movimento, la bellissima musica - che spazia dall'indi-rock al rap, dal pop all'heavy metal - e le frenetiche sequenze di una Tehran in continuo fervore, che Ghobadi ci racconta, scena dopo scena, tutta la forza underground dell'Iran. L'Iran che il regista ama e che vorrebbe salvare dall'oblio, esorcizzandone i mali attraverso la narrazione.

Believe me out there, there’s a jungle...

Si tratta di un film graffiante come i gatti persiani cui vengono equiparati i protagonisti, per tanti piccoli elementi che secondo Ghobadi accomunano gli indolenti felini ai giovani iraniani di cui il regista ci narra. Entrambi, dice Ghobadi, necessitano di sensibilità e gentilezza per essere compresi, requisiti che l'attuale regime persecutorio di Ahmadinejad nega loro, costringendoli a vivere nella clandestinità, a bazzicare il sottobosco, musicale e non solo: pur di continuare a esprimersi liberamente, i musicisti si muovono furtivi tra scantinati, tetti, stalle rubate a insofferenti mucche, come presenze clandestine nella loro stessa patria. E attraverso il tripudio musicale, che tesse la narrazione più di ogni altra cosa, la storia veleggia verso un epilogo cupo, che stona con l'energia vitale in cui è avvolto l'intero film ma che ne recupera il fulcro nodale, ovvero la denuncia di un clima oppressivo che trasforma giovani speranze in tragiche realtà, relegando la loro vitale creatività nei bui anfratti di uno scantinato, illuminati solo dalla tremolante luce di qualche candela. Un mondo dove la coatta clandestinità diventa l'unica via di fuga dalla giungla di oppressioni che controlla le vite, come recita anche uno dei pezzi dei musicisti: "Believe me out there, there's a jungle" (Credimi, là fuori c'è una giungla).

Come talvolta accade, anche in questo caso il cinema assume un ruolo fondamentale, facendo da trait d'union tra realtà lontane e sensibilizzando l'opinione pubblica su temi controversi e graffianti, mostrandoci come sia comunque possibile e appagante provare a realizzare i propri sogni. A Ghobadi va l'indubbio merito di averlo fatto, superando paure e difficoltà pur di inseguire il desiderio di libertà, e noi non possiamo che essere riconoscenti. "Avevo molta paura di girare un film del genere... Ma il coraggio, e l'energia me l'hanno date proprio i ragazzi che vedete protagonisti della storia, che mi hanno dimostrato come anche senza permessi ufficiali si possa comunque fare musica, fare film, inseguire i propri sogni. E sono felice di averlo fatto, e di averlo fatto in questo modo. Più che il regista de I gatti persiani, mi sento un ponte che ha aiutato quei ragazzi a farsi vedere e conoscere."


I Gatti Persiani Dando vita a un’opera eterogenea che combina documentario, fiction e videoclip, I Gatti Persiani di Ghobadi si dimostra un punto di volta per il cinema iraniano, non tanto per la forma quanto per il messaggio che veicola. Clandestino come il mondo che il film stesso ritrae, I Gatti Persiani induce a una profonda riflessione su molteplici aspetti socio-politici spesso (inconsapevolmente o volutamente) ignorati, assumendo un importante valore sia morale che artistico. Il regista pone l’accento sull’oppressivo regime iraniano, sull’urgenza di un popolo di esprimersi liberamente e sulla profonda indole creativa che anima l’Iran, percepibile tra le bellissime note dei tanti pezzi che costituiscono la colonna sonora del film. Questo travolgente pullulare di emozioni contrastanti fa del film di Bahman Gobadi un piccolo capolavoro da non perdere.

8

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