Recensione Hannah Arendt

Margarethe von Trotta, ricostruisce uno dei periodi più controversi nella vita e nella produzione della nota scrittrice tedesca

Recensione Hannah Arendt
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Quali strumenti permettono di indagare le origini del Male? Esiste un approccio attraverso il quale è possibile analizzare la genesi della più grande ed incomprensibile tragedia della storia contemporanea, l’Olocausto? Sono le domande a cui ha tentato di dare risposta la scrittrice tedesca Hannah Arendt quando, nel 1963, diede alle stampe un libro il cui titolo era destinato a diventare proverbiale: Eichmann in Jerusalem - A Report on the Banality of Evil, edito in Italia come La banalità del male - Eichmann a Gerusalemme. Un saggio di sconvolgente lucidità ed acutezza, nato dall’ampio reportage realizzato dalla Arendt per il New Yorker durante il processo tenuto a Gerusalemme, due anni prima, all’ex gerarca nazista Adolf Eichmann, sequestrato dagli agenti del Mossad, portato in Israele e condannato a morte per crimini contro l’umanità. Ma se la Shoah e la piaga del nazismo costituivano (e costituiscono) una ferita ancora aperta, il libro di Hannah Arendt scatenò roventi polemiche, in particolare negli Stati Uniti (dove la scrittrice si era trasferita prima dello scoppio della guerra), per aver sottolineato la “normalità” e la “mediocrità” della figura di Eichmann e di altri esponenti del nazismo rispetto all’indicibile “mostruosità” delle loro azioni.

IL RITORNO DI MARGARETHE VON TROTTA

Alle origini delle teorie de La banalità del male, e alla controversa ricezione del saggio della Arendt, che pur essendo lei stessa ebrea ricevette durissime accuse di antisemitismo e di revisionismo storico, la regista tedesca Margarethe von Trotta ha dedicato uno dei migliori film della sua carriera: Hannah Arendt, co-produzione fra Germania, Francia e Lussemburgo, presentato al Festival di Toronto nel 2012 e accolto dalle lodi della critica internazionale. Un eccellente ritorno al cinema per la regista consacrata nel 1981 dalla vittoria del Leone d’Oro al Festival di Venezia grazie al capolavoro Anni di piombo, che per il ruolo della Arendt ritrova qui una delle sue interpreti favorite, Barbara Sukowa, in passato musa di Rainer Werner Fassbinder (Lola, Berlin Alexanderplatz) e già protagonista, per la von Trotta, del film Rosa Luxemburg. E la prova della Sukowa, intensa ma sapientemente calibrata, che le è valsa il German Film Award come miglior attrice e la nomination allo European Film Award, è soltanto uno dei numerosissimi pregi di una pellicola dal solido impianto narrativo, impegnata a sviluppare un tema - il rapporto fra teorizzazioni filosofiche, scrittura ed esistenza personale - spesso assai arduo da mettere in scena sullo schermo.

L’INDAGINE SULLA “BANALITÀ DEL MALE”

Il film della von Trotta, difatti, rifugge la facile via del dramma giudiziario (le sequenze del processo ad Eichmann, per le quali sono stati utilizzati reali filmati d’archivio, occupano uno spazio alquanto circoscritto) così come, con intelligenza, evita inutili spettacolarizzazioni, sia in termini di enfasi retorica da tradizione hollywoodiana, sia nella descrizione del mènage fra la Arendt e il filosofo Heinrich Blücher (Axel Milberg), limitandosi ad alludere alle relazioni extraconiugali di quest’ultimo. Piuttosto, Hannah Arendt basa la propria forza sulle potenzialità di un “cinema di parola” (ma non per questo statico o didattico) perfettamente in grado di far scaturire la tensione morale ed emotiva dalle prese di posizione dei personaggi, nonché dalla fiera coerenza della protagonista rispetto ad una linea di pensiero volta a privilegiare la razionalità della filosofia su opinioni ‘dogmatiche’ ben più semplicistiche e rassicuranti. Il vero fulcro drammatico della pellicola, dunque, non risiede nel processo all’ex gerarca nazista, del quale la Arendt denunciò l’inesorabile mediocrità umana, quanto nello scontro implacabile fra la scrittrice e i suoi detrattori, scandalizzati da questa nuova prospettiva sulla natura della follia nazista e sulla succitata “banalità del male”.

L’UMANITÀ E IL PENSIERO

Un compito non facile, per Margarethe von Trotta, ma che la regista è riuscita a svolgere egregiamente: grazie ad una sceneggiatura - scritta in coppia con Pam Katz - di ammirevole densità, ma al contempo scorrevole e avvincente; grazie al disegno di Hannah Arendt, con il suo inglese dal marcato accento tedesco, la sigaretta perennemente accesa fra le labbra, il carisma magnetico unito ad una consapevolezza da molti scambiata per pura arroganza; grazie al modo in cui il film sa intrecciare i rapporti fra la protagonista e i personaggi che si muovono attorno a lei, inclusa la sua intima amica e collega Mary McCarthy, splendidamente impersonata - con tocchi di sopraffina ironia - da una bravissima Janet McTeer. Non manca neppure uno sguardo al passato di Hannah, con rari ma indovinati flashback sul suo contrastato legame con il filosofo Martin Heidegger (Klaus Pohl), responsabile di aver aderito al nazismo. E il film della von Trotta, alla resa dei conti, lontanissimo dalla convenzionalità del biopic o della “lezione di storia”, dimostra l’indiscutibile merito di saper stimolare una profonda riflessione sul capitolo più oscuro del ventesimo secolo, ma anche e soprattutto sul concetto di “pensiero” come virtù imprescindibile della nostra condizione di esseri umani. Con un’asciuttezza, un’onestà intellettuale ed un rigore - stilistico ed etico - capaci di elevare, pur con notevole anticipo, Hannah Arendt nel novero dei migliori film dell’anno.

Hannah Arendt Margarethe von Trotta, l’acclamata regista di Anni di piombo, ricostruisce uno dei periodi più controversi nella vita e nella produzione della scrittrice tedesca Hannah Arendt, magistralmente interpretata da Barbara Sukowa, ovvero la genesi del saggio La banalità del male, in un film di ammirevole profondità e rigore, che sfugge le trappole del didascalismo e della retorica e riesce a sfruttare in maniera egregia le potenzialità del “cinema di parola”.

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