Recensione Grand Budapest Hotel

Dopo Moonrise Kingdom, torna Wes Anderson con un'altra, cartoonesca, commedia

Recensione Grand Budapest Hotel
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La giostra di Wes Anderson continua a pieno regime, sfavillante di luci e colori, ma soprattutto di un cast immenso: mano al portafogli, torna Edward Norton (già spettacolare in Moonrise Kingdom), l’assiduo Bill Muray (benché solo per una veloce comparsata), nonché Owen Wilson, mentre il "parco attori” si rinnova anche chiamando a sé un grande Ralph Fiennes protagonista, e si prosegue con Harvey Keitel, Saoirse Ronan, Tom Wilkinson, l’ormai onnipresente quanto venerabile Lea Seydoux, un Adrien Brody nei panni del "cattivone", un Jude Law che ricorda tanto il Watson dei recenti Sherlock Holmes con la firma di Ritchie, e chi più ne ha, più ne metta... si potrebbe andare avanti a lungo. Risultato: la Berlinale ha aperto col botto, vedendo un’indimenticabile passerella di star e assistendo anche a una presentazione in costume, nella divisa viola di rappresentanza dell’hotel. Ma come mai questo dispendio di star? E cosa è cambiato?

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DI ESSERE ANDERSON

Tempi rosei per Wes Anderson, che da anni segna una rete dopo l’altra, qualificandosi di fatto come “autore di tendenza”, in grado attrarre attori affermati e star ardentemente desiderose di uscire dagli schemi e di cavalcare quei ruoli sui generis, a metà tra il fumettistico e il baroccheggiante, cui Anderson ci ha abituati. Grand Budapest Hotel non presenta sostanziali differenze a livello di macroschema narrativo: una serie di personaggi bizzarri, con protagonisti il concierge di un lussuoso albergo (Ralph Fiennes), in corsa per l'eredità di un prestigioso quadro, e il rapporto fraterno che si crea col fattorino Zero (Tony Revolori).

L'eredità scatena una gara di sotterfugi, inganni e rocamboleschi inseguimenti: il figlio della defunta e maggior erede Dmitri (Adrien Brody) si oppone con fermezza alla volontà testamentaria secondo cui proprio il concierge M. Gustave, che con la defunta aveva vissuto un periodo di sentimento e passione (uno dei tanti periodi con una delle tante clienti senili, a dire il vero), sarebbe erede di un quadro di prestigio: "Il Ragazzo con la Mela" Tra scimmiottamenti del nazismo (capaci di recuperare egregiamente almeno un paio di dritte di chapliniana memoria, si pensi al Grande dittatore) e sfrenati inseguimenti su sci e slitta, tra cesti con teste mozzate (e qua la memoria è storica, di sapore latino-romano) e un intero capitolo alla escape movie dedicato al tentativo di evasione dal carcere, questa sfilata di burattini, cuciti su misura dalla penna di Anderson, mette in scena un teatrino acrobatico e scoppiettante, strizzando l’occhio al registro del cartoon, al fumetto, all’adventure movie per ragazzi, ma venato anche da una certa crudeltà.

A MACCHIE DI LEOPARDO

Gli elementi andersoniani ci sono tutti: la caratterizzazione dei personaggi, la divisione in capitoli, la storia apparentemente semplice che gioca tutto sul ridicolizzare situazioni e interpreti ma con quella ironia tipicamente andersoniana che tanto ha fatto scuole presso gli hipster di tutto il mondo. Compare un mondo di frivolezze, vanità ed egoismo, in cui la vera "vittima" è il nazismo e più in generale una fetta di società europea, saprofaga e pronta ad artigliare l’arte per farne un investimento, così come a trasformare un funerale in una rissa da bar. Grand Budapest Hotel potrebbe far pensare a un racconto perlopiù incentrato nell’omonimo hotel, ma in realtà questi ne è, al contrario, quasi del tutto escluso: l’hotel del titolo e del racconto diventa piuttosto il metaforico Grand Hotel della vita, quella consumista e alto-borghese europea soprattutto, dove ogni suite è affollata di eccentrici personaggi privi di scrupoli.

Impostazione molto simile ai titoli precedenti, insomma, e stile simile più che mai al penultimo Moonrise Kingdom, anche se l’ultima fatica di Anderson gioca molto sul cartoon, sull’effetto enfatizzante tipico dell’animazione, su movimenti artificiosi e quasi coreografati, con piedi che sbucano a rovescio dalla neve, cerchi scuri che vanno a chiudere le inquadrature, dita che si staccano come fossero pezzi di plastica. Un film sempre all’altezza delle aspettative, un altro titolo convincente dalla fucina di W.A., che conferma il proprio merito di saper scrivere delle storie divertenti e fortemente ironiche, ma soprattutto di saper lavorare sugli attori, rendendoli velate caricature a partire da un lavoro quasi morboso sulla volontà dei personaggi di darsi un tono d’autorevolezza.

Grand Budapest Hotel Il film resta lontano dai livelli dei Tenenbaum e di Steve Zissou, ma anche del più recente Moonrise Kingdom: riesce a convincere, fa ridere e appassiona, è ben riuscito, ma forse il pubblico più abituato a questo regista vuole cominciare a vedere qualche nuovo registro. È vero che gli stilemi, seppur in modo non appariscente, sono cambiati molto. È anche vero però che aver trovato il proprio “filone d’oro” dipingendo sagome colorate e riempiendole di ironiche e quasi auto-sarcastiche linee di dialogo non deve diventare una scusa per non cercare un nuovo modo di raccontare le storie.

7.5

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