Recensione Gare du Nord

Parigi, Gare du Nord: tutto può accadere, anche l’arrivo di un treno.

Recensione Gare du Nord
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Ismael (Reda Kateb) è un laureando presso l’Università Parigi 3; studia sociologia e sta scrivendo una tesi sulle dinamiche dei non-luoghi, principalmente sulle stazioni ferroviarie, una in particolare: la Gare du Nord, 180 milioni di viaggiatori l’anno e una fama non proprio angelica. È una vera città nella città, con tutti i suoi negozi, bar e ristoranti, coi ragazzi perditempo che stanno poggiati al corrimano in gruppo o rappano un po’ fra loro, con chi si rintana nell’“angolo dell’amore”, un piccolo antro nascosto dove i ragazzi se la fanno con “quelle facili”. Ismael, idealista e forse pure fin troppo, è espansivo e cerca di penetrare la realtà oltre l’apparenza, rivelando il meglio delle persone che lavorano in stazione: il cinese del banco delle caramelle, il senegalese che vende al dettaglio, e... una donna coi suoi anni, Mathilde Delaunay (Nicole Garcia, sempre affascinante), docente di storia alla Sorbona, ancora bella e con un animo delicato, che finirà per stringere un forte legame con Ismael. Nella stazione, a completare uno stravagante quadrilatero, anche Sacha (comico in declino che cerca la figlia scomparsa) e Joan (ex-allieva di Mathilde, ora agente immobiliare troppo soffocato dal lavoro per stare con la famiglia). Il film è uno shackeratore folle di questi quattro vertici fuori luogo: non sono viaggiatori ma non sono nemmeno parte della fauna della stazione. Non lo sanno nemmeno loro, cosa sono. Sembra che ognuno affronti le proprie paure in questo non-luogo.

Città-stazione

Il film è uno shackeratore folle di questi quattro vertici fuori luogo: non sono viaggiatori ma non sono nemmeno parte della fauna della stazione. Non lo sanno nemmeno loro, cosa sono. Sembra che ognuno affronti le proprie paure in questo non-luogo.
Una pellicola che, in finale, ha spiazzato un po’ tutti. Dopo la partenza al rallentatore di Locarno 2013, dall’avvio Gare du Nord pareva proprio un bel filmino, così francese -non solo perché siamo in uno dei punti nevralgici parigini per eccellenza, la stazione Nord della capitale appunto ma per la narrazione speech, portata avanti dai dialoghi come possenti ruote motrici, con geometrie di personaggi che si interfacciano secondo i canoni della tipica commedia transalpina- con il jingle delle ferrovie SNCF a scandire il ritmo e con quella piccola città dentro la città che è la stazione...
Peccato che poi però il film cambi nettamente rotta. E spiazzi tutti, appunto. Forse qualcuno può anche apprezzare. Qualcun altro può pensare che sia un tentativo di variare i soliti schemi e pazienza se non è così riuscito. Noi pensiamo che i dubbi si moltiplichino troppo, che lo spettatore non può sostenere questo plot. Ed è un peccato.

Binari psichedelici

Per tutto il primo tempo, il film segue una storia chiara e lineare, molto piacevole con il suo esplorare le realtà umane cosmopolite di una così vasta stazione: si riscoprono i valori di lavoratori che spesso sono fin troppo trascurati e ci si sofferma su un luogo in cui la maggioranza sfreccia a gran velocità, senza prestare attenzione. Il secondo tempo (o meglio, la seconda parte, visto che il film è stato proiettato senza intervallo) scuote violentemente i giochi, i personaggi appaiono e scompaiono a intermittenza. Lo spettatore resta confuso, perché Ismael e Mathilde vengono proposti come i protagonisti (specialmente il primo), ma poi talvolta scompaiono, anche a lungo. I quattro personaggi del film non sono bilanciati a dosi eguali, perdere i protagonisti è straniante, soprattutto perché Sacha e Joan non hanno abbastanza presa sul pubblico. Il peggio però arriva con il progredire (o regredire?) della storia, quando alla linearità si sovrappone un sostrato psichedelico e magico, quasi il film appartenesse al fantasy. Declassiamo un paio di momenti come vezzi registici, allegorie o metafore, ma poi si ripetono sempre di più e sono inequivocabili: sembra davvero una trama psichedelica da film surrealista e non perdersi è impossibile.

Gare du Nord Forse il messaggio finale è sostanzialmente quello di guardare alla Gare du Nord come a una grande allegoria di vita, dove i personaggi corrono a velocità diverse, salgono e scendono dai treni della loro vita, seguono la propria strada, deviano e ne imboccano un’altra. C’è chi poi si trova pieno di rimorsi, chi trova la morte, chi trova la gratificazione e la crescita interiore, chi impara e chi perde tutto; è un grande crocevia, un incubatore di vita. Una metafora, certo. Ma perché mai si doveva ricorrere, all’improvviso e di punto in bianco, al sovrannaturale? Perché impostare per un’ora buona il film secondo i canoni della commedia e in parte secondo il veritè, per poi sterzare bruscamente su strade (anzi su binari) totalmente estranei e più che esoterici? Appena sufficiente perché, bene o male, è realizzato bene e può anche piacere. Ma non è per tutti.

6

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