Recensione Garage

Irlanda: solitudine e silenzio

Recensione Garage
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Cartoline dall'Irlanda bucolica

Irlanda. Josie (Pat Shortt) è un autoctono che, in silenziosa solitudine, gestisce una stazione di servizio con garage in un piccola città. E' una persona semplice, ingenua, remissiva. Passeggia lungamente per le uggiose campagne per poi ritrovarsi, come ogni buon irlandese che si rispetti dalla letteratura al cinema, difronte ad un bancone un po' delabrè a gustarsi una mussante pinta di birra . Ad un certo punto il titolare del garage decide di affiancarlo con un ragazzotto (un po' tipizzato) con occhiali ed acne: David (Conor Ryan), col quale Josie instaura un rapporto adolescenziale fatto di birre e filmini pornografici. Ma proprio in questa ingenuità si rivela il conflitto del film: la madre del ragazzo denuncerà per questi fatti il buon Josie. Una denuncia, in una piccola comunità irlandese, significa esporsi al disprezzo generale, quando anche solo il sospetto basterebbe per esser socialmente emarginati, a fortiori per un tipo come Josie, goffamente buono tale da ricoprire lo sconveniente ruolo di "scemo del villaggio", suo malgrado senza cognizione.

Festival, premi e silenzi

Garage è il classico lavoro da festival. Tutti lo hanno scritto ed è constatazione irrefragabile. La prova la dà il fatto che questi ha girato nelle rassegne di tutto il mondo, raccogliendo anche buoni consensi tra cui la vittoria al morettiano Torino Film Festival del 2007 e la più ambita segnalazione a Cannes 2007, dove ha ottenuto il Premio Cicae Art and Essai cinema.Quello del regista irlandese Lenny Abrahamson è un lavoro di realtà, condotta con sguardo addirittura antropologico, tanto più che lui stesso, irlandese, si è servito di uno sceneggiatore, il fedele O'Hollaran, nativo proprio delle midlands d'Irlanda. Ritrae dunque tutta quella provincia un po' beghina e un po' maligna, senza però essere mai sferzante con la cinepresa, riuscendo con abilità a squadernare la sommessa cattiveria di un popolo solo con la lentezza ed il silenzio. L'ottima sceneggiatura racconta per frammenti, riduce al minimo i dialoghi proprio per rincrudire l'incapacità comunicativa di quel substrato sociale - tema topico del lavoro - facendo scorrere le giornate in serie, monotone, rapprese in una densa malinconia. E' una violenza che rimane nascosta, si fa carsica, resta implosa in quelle nuvole cianotiche, in quell'Irlanda da quadro fiammingo in cromatismo verde-grigio, che altro non è se non il colore scenografico dello stato d'animo in disfacimento del protagonista; tecnica scontata, ma sempre dall'effetto fortemente emotivo. E' un film fatto di silenzi, quotidianità mediocri incalzate dall'amarezza, un film che, nell'immaginario, deve molto al conterraneo Beckett: ci sono i due personaggi assurdi, di cui uno mentalmente svantaggiato, che dialogano nell'assurdità delle cose inutili e sporche. Una facile lettura dalla forte espressività profusa dalla splendida interpretazione di Shortt (celebre attore comico in patria), qui alle prese con una parte che, fosse stato un americano, gli sarebbe valsa almeno qualche nomination. Le sfumature con le quali caratterizza il suo personaggio riescono a dare realtà al "ritardo" di David che, da animo candidamente fanciullesco, è capace di mostrare quanto in vero sia abbruttito il mondo. Capacità attoriale che lo stesso regista ha paragonato a quelle di Benigni per l'abilità di reinvertarsi con successo tra parti comiche (qui assenti) e quelle drammatiche.L'audacia del regista è quella di dare senso emotivo al lavoro pur mantenendo un clima di bonaccia, evitando lo scontro diretto con la tempesta...si sente che qualcosa succederà, ma solo le ultime scene saranno rivelatrici.

An irish job

Il tono minimalista risulta azzeccato nel contesto, il racconto di un certo costume rupestre irlandese non poteva che avere un tono scarno, con tempi lunghi e uno sguardo indulgente verso i quadri paesaggistici...in questa piccola immensità ecco l'uomo solo, incompreso ed imbambolato. E' talmente espressiva già l'immagine che il regista elimina la colonna sonora (se non nei titoli di testa e coda). Lo sguardo disilluso però non vuole essere un monito morale, teorico. Come si diceva all'inizio, è questa una focalizzazione su un particolare humus, un lavoro quasi da etnografi che non vuole sussumere. La pertecipazione emozionale vuole sì coinvolgere lo spettatore in un percorso intimo, ma senza complicazioni generali: Garage non è un exemplum.Così dopo aver raccontato Dublino nel precedente lavoro Adam e Paul, Abrahamson lavora con diaspro umorismo che fa degenerare un magro destino con incauta fiducia, accerchiando esponenzialmente il protagonista.Un racconto per immagini di una vicenda irlandese, non paradigmatica, per mettere in luce le dinamiche comunicative tra i membri di piccole comunità, l'atteggiamento difensivo delle campagne irlandesi in contrasto con quello urbano del precedente lavoro.

Garage Dall'intervista rilasciata dal regista per la premiazione a Torino: ..."Quindi non ci sono veri e propri colpevoli per quello che accade a Josie. No, infatti. Non ci sono eroi o antagonisti. È la situazione, in un certo senso, a determinare le conseguenze e forse è quella che ho voluto mettere a giudizio. In Irlanda il film sta funzionando bene, probabilmente c’è un’adeguata rappresentazione del “carattere” nazionale, anche se lo sguardo è critico. E forse potrà aiutare a cambiare..."

7

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