Recensione Felice chi è Diverso

Gianni Amelio ci conduce per un viaggio in un’Italia segreta, raramente svelata dalle cineprese: l’Italia del mondo omosessuale

Recensione Felice chi è Diverso
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Instancabile Gianni Amelio, classe 1945, di provenienza calabrese e vincitore negli anni di Nastri d’argento, David di Donatello e un Leone d’Oro. E’ anche arrivato a sfiorare l’Oscar nel 1991 con Porte aperte! Amelio è una personalità che lavora a 360° nel mondo dello spettacolo, la sua carriera cinematografica si intervalla a regie televisive e collaborazioni in opere di colleghi, in regie teatrali (recentemente impegnato nell’Elektra di Strauss al Petruzzelli di Bari) e direzioni di festival: dal 2008 al 2012 ha diretto il festival di Torino (testimone ricevuto da Nanni Moretti e che ha poi passato a Paolo Virzì). Una personalità artistica e cinematografica di rilievo nel panorama italiano e non solo, che è tornato al cinema solo pochi mesi fa con L’intrepido (con Antonio Albanese), in competizione a Venezia, e che ora sta per tornare di nuovo sugli schermi con un documentario che ha suscitato molte curiosità: Felice chi è diverso è rimasto sigillato in una supersegretezza fino alla sua prima internazionale, nella sezione Panorama di Berlino, dove ha riscosso un parere ampiamente positivo dal pubblico - in Italia invece uscirà il 6 marzo, distribuito da Istituto Luce.

DALLE CLINICHE SVEDESI ALLE GAZZELLE ROSA

Felice chi è diverso, 93’ di documentario dal lavoro certosino di scavo negli archivi, è l’indagine di Amelio sulla condizione dell’omosessuale in Italia, dal fascismo al secondo dopoguerra fino alla soglia degli anni ’80: il regista ricorre a tutte le modalità classiche del documentario, con un massiccio lavoro di “scavo archeologico” negli archivi Rai e Luce, vecchi spezzoni e riferimenti culturali, e alternandoli a testimonianze dirette di chi quel periodo l’ha vissuto sulla propria pelle. E se la prima parte è maggiormente incentrata sulle clip di archivio (ma non mancano numerose e interessanti testimonianze), la seconda punta più sull’attualizzazione della ricerca, indagando cosa è cambiato ad oggi e cosa invece è rimasto. Il documentario è molto piacevole, carato su una durata corretta (un’ora e mezza), ma a tratti anche forte e carico di sofferenza: le testimonianze saltano da up and down di ricordi rivangati col sorriso a memorie tristi e dolorose. L’impasto testimonianza+archivio audiovisivo segue un ordine cronologico (dagli anni ’30 a inizio anni ’80, circa), bilanciando con estremo equilibrio le due componenti e selezionando campioni fortemente rappresentativi della percezione massmediatica del tempo. Si passa così da sconcertanti cliniche svedesi dove avvenenti infermiere cercano di “guarire” il paziente risvegliando il desiderio fino a servizi televisivi che parlano degli omosessuali come “gazzelle rosa” e “antilopi del vizio capovolto”.

LAVORO CERTOSINO

Il primo merito di Gianni Amelio è aver confezionato un documentario rigoroso e soprattutto profondamente sentito, in cui tutto funziona alla perfezione: un’urgenza probabilmente personale, che il regista sentiva di dover raccontare, anche alla luce del suo recente coming out a fine gennaio. Il documentario non è solo un’indagine di testimonianza e d’archivio sull’omosessualità nel Novecento, si allarga di fatto a un discorso più ampio e generale, incarnando paure e remore di omosessuali non dichiarati e dell’omofobia sommessa nella società.

La visione del documentario è piacevole, a tratti dura, e arricchisce lo spettatore: quello italiano, in più, avrà modo di ripescare dall’archivio tanti reperti mediatici sull’omosessualità e di ricomporre una costellazione della percezione queer del tempo attraverso cinegiornali, televisione, cinema e musica. Si passa così dalla celebre clip di Fino Occhio ne Il Sorpasso a un estratto di trasmissione ironica di Raimondo Vianello, passando per cronache giornalistiche sconcertanti, in cui l’omosessualità viene spesso additata come “capovolta”, “invertita”, una stortura malata - viene paragonata a Parteno, la sirena come simbolo del doppio, ma anche a una nuova peste come punizione dopo Sodoma e Gomorra. Non manca ovviamente Pierpaolo Pasolini, definito dai media dell’epoca “il vate capovolto”, “il bardo dell’Italia ‘così’”, e una dichiarazione di Fellini: “Avrei voluto essere frocio anch’io, ma mi piace troppo la donna”. Ma anche di Rousseau: “Il bambino nasce perfetto. Sbagliata è la società”.

Felice chi è Diverso Non c’è titolo più azzeccato che quello scelto da Amelio, in prestito dall’omonima poesia di Sandro Penna, lucida critica all’anticonformismo imposto: “Felice chi è diverso / essendo egli diverso / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”. Il documentario di Amelio si conferma così non solo un documentario sulla condizione gay nell’Italia novecentesca, frequentemente osteggiata dalle stesse famiglie, e non solo un messaggio più ampio alla comunità queer, ma una bandiera al diverso in generale, e al non accettare un confezionamento rigidamente imposto. Da vedere assolutamente.

8

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