Recensione Et in terra pax

Nei meandri 'pasoliniani' della vita di perfieria

Recensione Et in terra pax
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Forse sulla terra non ci sarà mai una pace duratura, frutto di uno stabile equilibrio tra gli uomini, per loro natura troppo proiettati alla sopravvivenza del singolo, a unirsi in branco per poi cercare di mettersene alla guida. Ma è ai margini della società, là dove il flebile luccichio del poco denaro che circola, assieme all'immenso grigiore di edifici asfitticamente impersonali (ognuno uguale all'altro), che l'impossibilità di una pur ‘utopica' pace cresce a dismisura, fagocitando le vite di quanti, buoni o cattivi, vi ci si ritrovano invischiati. In un mondo geograficamente e socialmente periferico, dove la sopravvivenza di uno è l'ineludibile condanna dell'altro, non è concesso spazio al lusso di ritagliarsi un proprio posto nel mondo. E allora ci si aggira, sotto la calura di stagioni arse dalla noia e dall'assenza di sogni, come cani randagi sempre affamati, alla ricerca di un diversivo o di una fortuita vittima scarificale che possa, per un attimo solo, provare la nostra esistenza, farci urlare al mondo: "Io esisto".

È questo il contesto sociale in cui Matteo Botrugno e Daniele Coluccini (registi trentenni al loro primo lungometraggio, ma già autori di diversi corti e videoclip musicali) immergono Et in terra pax (un prodotto low budget con piccoli mezzi che si è però nutrito della collaborazione e della passione di molti, bravi professionisti), moderna storia di ‘Accattoni' di periferia votati allo sbando e all'isolamento sociale. Un film che nonostante qualche imperfezione, rievoca tutto lo strazio di un mondo chiuso a riccio su sé stesso, incapace di modificare e modificarsi.


Ragazzi di vita (di periferia)

Appena uscito di prigione, Marco (Maurizio Tesei) è ‘determinato' a non ricadere nei giri che lo hanno portato a trascorrere diversi anni nel buio delle celle, ma l'accerchiamento del gruppo di ‘soliti amici' e una cupa situazione familiare presto piegheranno il ragazzo alle leggi del quartiere, portandolo a trascorrere le giornate seduto su una panchina, ad attendere clienti e a contemplare lo scorrere della vita, senza farne mai realmente parte. Tra i tanti viandanti che transiteranno di fronte a quella sua panchina incolore, pellegrini di un viaggio che sembra non avere passato né futuro, ci sarà anche Sonia, ragazza tenace e volitiva, la cui voglia di emancipazione attraverso lo studio e un lavoretto per ‘alzare qualche spicciolo' si scontrerà (come per Marco) con la ben più dura realtà del quartiere, fagocitato e rappresentato dalla minacciosa ombra del Serpentone di Corviale (un luogo che a detta dei registi rappresenta un po' tutte le periferie, grigie e attraversate da un fitto pulviscolo di malavita) che si profila alle spalle di questi destini incrociati, di cui fanno parte anche Faustino, Federico e Massimo detto "Nigger", perfetti esemplari di quella vita di noia e perdizione capace di trasformare un innocuo ‘branchetto' di perdigiorno in un feroce trio, accecato di riscatto. E mentre Sonia rimarrà vittima delle frustrazioni del branco, Marco dovrà ergersi (anch'egli vittima) suo malgrado a carnefice, entrambi emblema di un negativo circolo vizioso quasi impossibile da spezzare, della ‘banalità del male' che spesso ottunde le nostre esistenze.

Sacro e profano

Ricalcando e mescolando i temi cari a Pasolini, Et in terra pax appare come la rivisitazione moderna di un Accattone in cui s'intrecciano coeve storie di moderni Ragazzi di vita di una periferia romana in cui la droga si mischia all'olezzo delle bische di quartiere, la canicola estiva alla soffocante scenografia di luoghi fantasma, desolati e desolanti quanto le fragili esistenze che vi bazzicano quotidianamente. Lavorando per sottrazione e dunque stilizzando molto i protagonisti e gli scenari che fanno da sfondo a questa storia particolare (solo parzialmente immersa nella Roma dialettale di periferia) e universale (tutte le periferie del mondo), i due registi mischiano (come amava fare Pasolini) il profano dei luoghi e delle vicende, condizionate da un'umanità misera e corrotta, al tono sacro e austero della musica classica (l'Et in terra pax di Vivaldi che dà il titolo all'opera) e di un simbolismo (è il rogo del fuoco - forse - purificatore e catartico ad aprire e chiudere il film) che aspira a universalizzare la storia. Una storia che sposta l'attenzione dai protagonisti fittizi (i cinque ragazzi tutti più o meno spaesati dal non-luogo in cui vivono) a quelli reali (la noia, la solitudine, l'abbandono e il silenzio deflagrante di una periferia priva di colori, spenta, innocua e devastante). La sacralità della Vita che si scontra con la profanità del quotidiano, della popolare tragedia umana incarnata dalla terribile banalità di certi gesti (lo stupro casuale come riaffermazione della propria esistenza). Un linguaggio cinematografico minimalista che gode della buona prova degli attori (tutti molto misurati) e del penetrante ritmo dato dai silenzi di un luogo che sembra, per sua natura, risucchiare la linfa vitale dell'uomo, confinandolo al perimetro di una panchina, lo sguardo perennemente chiuso su sé stesso.     


Et in terra pax È con grande passione per il cinema e uno sguardo antropologico teso alla nostra moderna società (con occhio di riguardo per la sempre negletta periferia) che Matteo Botrugno e Daniele Coluccini firmano Et in terra pax (il loro primo lungometraggio). Lo sguardo, minimalista ed iperrealista del linguaggio cinematografico, è teso a inquadrare il mondo vuoto delle vite ai margini, sempre alla ricerca di un ‘passatempo’ che possa riempire le sue esistenze. Un luogo-non luogo (quello della periferia romana che ne rappresenta molte altre) in cui la banalità del male si affianca alla sua ineludibilità, tracciando una forza centripeta di noia e solitudine da cui sembra impossibile fuggire.

6.5

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