Recensione ...E ora parliamo di Kevin

La genesi del Male tra le mura di casa...

Recensione ...E ora parliamo di Kevin
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...E ora parliamo di Kevin. Un imperativo che risuona lungo tutti i 117 minuti di film. E infatti non si parlerà mai d'altro, se non di questo bambino, poi adolescente, ostinatamente contro. Contro sé stesso e contro la madre, contro il padre e la sorellina minore, e infine contro l'intero mondo circostante. Ma Kevin è il mezzo e non il fine. E infatti, basato sul romanzo di Lionel Shriver, il film della regista scozzese Lynne Ramsay (nel curriculum l'apprezzato Ratcatcher) è in effetti la drammatica analisi di un rapporto madre-figlio, e più in generale di un intero nucleo famigliare, nato malato e mai sanatosi. Una frattura sorta forse nel congelamento di sentimenti (negativi o positivi che siano) mai troppo esteriorizzati e che si è trasformata, col passare del tempo, in un irreparabile cedimento strutturale dell'edificio famiglia. Lynne Ramsay sembra qui coniugare con estremo equilibrio quel clima denso e cupo, figlio del cinema inglese d'indagine sociale, con l'universalità più americana (rinvenibile anche a livello stilistico) di un male che germoglia e mette radici un po' ovunque, anche là dove (una famiglia borghese, con una bella casa, di cosiddetta gente per bene) non avrebbe ragione d'esistere. E così il dubbio, quello di una madre sconvolta da un dolore e da un senso di colpa assordanti, si muove in equilibrio tra il valore della casualità (un ciclo di profetiche coincidenze che si apre alle 12.01 di un concepimento e si chiude alle 12.01 di un giorno segnato dalla morte) e quello di causalità (errori educativo/affettivi che si traducono in tragedia) di quello stesso male che, non trovando spiegazione alcuna, rifugge infine ogni possibilità di espiazione.

Kevin: angelo o diavolo

La vita di Eva (Tilda Swinton) e di Franklin (John C. Reilly) a New York è quella di una comune famiglia borghese apparentemente equilibrata e senza troppe smanie di protagonismo. Trasferitisi in periferia per allargare la famiglia, la loro tranquillità viene però interrotta dall'arrivo del primogenito Kevin. Il piccolo infatti, così scuro di occhi e capelli da voler quasi affermare la propria ostilità sin dalla rottura cromatica dei suoi caratteri somatici, si mostrerà fin da subito un bambino indispettito e dispettoso, soprattutto e palesemente nei confronti della madre. Dalle urla strazianti di bebè irrequieto, al mutismo selezionato (il rifiuto ostinato di dire mamma e l'inquietante naturalezza con la quale imparerà a ripetere ‘muori') di bambino difficile, fino all'adolescente schivo e diabolicamente intelligente, Kevin passerà i suoi primi sedici anni di vita a elaborare un modo per sgretolare ciò con cui non riesce in alcun modo a entrare in empatia: la sua famiglia e in primis sua madre. Neanche la nascita della piccola Celia placherà il suo insano e ingiustificato odio. Anzi, quella sorellina angelica nella forma e nei modi acuirà ancora di più quella vocazione al male che, in lui, non riesce a sopirsi. Una vita vissuta nell'oblio di una sofferenza auto-imposta che non troverà sfogo in alcuna passione, se non quella del tiro con l'arco. E sarà proprio infatti nella ‘rivisitazione' di un Robin Hood al suo occhio salvifico e vendicativo che Kevin compirà il suo gesto ultimo (e più eclatante) di rifiuto, realizzando infine il disegno della irrazionale e irreparabile distruzione della sua famiglia.

Il colore del male

La Ramsay bilancia la crudezza del racconto con l'eleganza di uno stile fortemente legato a un permeante simbolismo cromatico in cui la fa da padrone, ovviamente, il rosso. Un colore dilagante che transita dall'amore ostile tra madre e figlio (marmellate e vernici sparse ovunque) alla strage annunciata che poi rivivrà nella mente di Eva (attraverso i continui flash-black) nella visione di una sorta d'inferno liquido, affollato di anime dannate e affogato in una densa salsa di pomodoro. Un'immagine che, al pari di molte altre, costituisce l'ossatura di un film di estrema efficacia visiva, capace di distribuire lentamente e gradualmente i semi di una potenza/violenza emotiva sotterranea, che fuoriesce a tratti come geyser narrativi sapientemente giustapposti, anche attraverso una musica composita di pezzi (dai Beach Boys ai Wham!) che comunica tramite diverse sonorità le sfumature emotive di questa discesa agli inferi di una famiglia -potenzialmente- comune. Ma il fiuto ‘visivo' della Ramsay non lavora da solo, trovando ampio riscontro nella magistrale implosione emotiva di una Tilda Swinton audacemente in parte, sostenuta da un sempre ottimo John C. Reilly e dal plumbeo Kevin del giovane Ezra Miller, una commistione di intelligenza e oscurità che mette i brividi.

...E ora parliamo di Kevin La regista scozzese Lynne Ramsay realizza un film potente nella forma e nei contenuti, la cui capacità di arrivare allo spettatore quasi sfugge (sorpassandolo) al rigore della geometria narrativa. Ben girato e sapientemente montato, E ora parliamo di Kevin si muove subdolo, come il suo protagonista, tra le pieghe di un dolore inaccettabile (ancora più inaccettabile della morte stessa) che è la percezione (qui materna) di essere (forse) responsabili del gene di un male incontrollabile. Un film che indaga la genesi del male affidandosi alla straordinaria prova di una Tilda Swinton scarnificata dalla sofferenza, e dall’interpretazione mefistofelica di Ezra Miller, la cui sadica violenza intellettiva sottomette ogni proiezione di violenza fisica.

8

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