Recensione Corsa a Witch Mountain

Disney ritorna su un classico, ma i suoi alieni non convincono

Recensione Corsa a Witch Mountain
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C’erano una volta i romanzi di Alexander Key, grande autore di fantascienza per ragazzi. Libri che tutti i giovani lettori di fiction degli anni ‘60/’70 hanno letto con piacere, e che hanno ispirato molti grandi scrittori di cinema e animazione: Hayao Miyazaki trasse il suo Conan, il ragazzo del futuro da The Incredible Tide, mentre Disney, nel 1975, lanciò Escape to Witch Mountain, traendolo a grandi linee dal romanzo omonimo.
La storia de L’incredibile viaggio verso l’ignoto (questo il titolo della versione nostrana di questo film oramai fuori catalogo, almeno in Italia) ripercorreva la grande avventura di due fratelli, Tia e Tony, che, rimasti orfani in tenera età scoprono, appena teen-ager, di possedere abilità ESP, che allo stesso tempo saranno fonte e soluzione dei loro guai, finché non ne scopriranno l’origine: il loro essere originariamente degli extra-terrestri, scampati alla distruzione del proprio pianeta natale e destinati a ricongiungersi con la loro razza una volta giunti nella piccola “colonia” sorta all’interno della misteriosa Witch Mountain.

Il tassista roccioso e i teen-ager alieni

La trama di Corsa a Witch Mountain riprende solo alcuni di questi elementi, tenendo quelli più ‘caratteristici’, ma ribaltando molti punti di vista; qui i due fratelli, rinominati Sara (AnnaSophia Robb) e Seth (Alexander Ludwig), sanno già di essere extraterrestri, e hanno una ‘missione’ da compiere, per conto dei propri genitori: una missione che, se portata a termine, può garantire la sopravvivenza di entrambe le specie, quella aliena e quella umana. Ad aiutare i due ragazzi ci penseranno un tassista dai modi spicci e dal passato burrascoso, Jack (Dwayne “The Rock” Johnson) e una visionaria scienziata, Alex (Carla Gugino), mentre il mal assortito quartetto viene braccato da killer alieni e da men in black decisamente terrestri.

No more escaping, just racing

E c’erano una volta i film per famiglie “made in Disney”: Mary Poppins, L’isola del Tesoro, Pomi d’ottone e manici di scopa...e tra questi, L’incredibile viaggio verso l’ignoto.
Sono passati ben più di trent’anni da allora, e si vede: le generazioni passano, i gusti cambiano, il mercato si adegua.
Se già il primo film e i suoi seguiti (Return from Witch Mountain, del ’78, e Beyond Witch Mountain, dell’82) nonché il remake del 1995 si allontanavano in parte dal testo originale del romanzo, qui del classico di Key rimane davvero ben poco, al di là dei due protagonisti, che inoltre degli originali hanno solo (e in parte) i poteri.
Per il resto, la trama viene stravolta, e gli unici personaggi “sopravvissuti” al passaggio su celluloide sono proprio i fratelli. Ma se su questo si può soprassedere (ben vengano i cambi, se sono funzionali: dopotutto un remake non deve forzatamente essere pedissequo per funzionare, anzi) non altrettanto si può fare se lo script del film è più piatto de Uno sceriffo extraterrestre... poco extra e molto terrestre, storico film con Bud Spencer che condivide più di una somiglianza con la presente pellicola, risultando però più divertente e “fresco” nonostante il ‘piccolo’ dettaglio dei tanti anni sul groppone.
Il cambio nel titolo non è stato casuale: non è più una fuga formativa dei ragazzi da chi vuole solo sfruttare i loro poteri, ma una semplice (rin)corsa di avvenimenti, nient’altro che un rocambolesco inseguimento (a piedi, a bordo di taxi e dischi volanti) e una serie di pretesti per inserire azione a go-go e qualche battuta facile facile.
Viene da chiedersi dove sia finita la riflessione sociologica sul senso di abbandono, diffidenza e diversità che vivono i due piccoli alieni nel romanzo, e che in qualche modo anche il film del ’75 portava alla ribalta: con una morale e uno stile tipicamente Disney, ma che trasmetteva comunque un messaggio.
Cosa assolutamente assente nel presente Corsa, che per l’appunto corre via per la sua ora e mezza di durata, intrattenendo senza troppi scossoni, ma anche senza particolari guizzi di stile. E se la sceneggiatura è banale, scontata e assolutamente povera in confronto all’opera da cui prende ispirazione, la realizzazione tecnica non fa poi molto per migliorare le cose: inquadrature e regia troppo di maniera, scenografie e costumi dozzinali, effetti visivi -soprattutto nell’ultimo terzo di film- che sembrano usciti da un serial tv più che da un blockbuster cinematografico Disney. Si salvano perlomeno gli interpreti, anche se non gli viene richiesto chissà che sforzo nel girare certe scene. Johnson conferma la sua vena attoriale che, sebbene non memorabile, è certo migliore di tanti suoi colleghi “duri e puri”, e la Gugino è sempre gradevole da vedere all'opera.
I due ragazzi scelti per interpretare i due gemelli alieni, la Robb e Ludwig, dimostrano l’esperienza acquisita in tutte le loro precedenti esperienze (non poche, per la loro età: spulciare i loro curriculum per credere) e rientrano perfettamente negli odierni canoni -anche estetici- Disney.

Corsa a Witch Mountain C’erano una volta, dicevamo. C’erano una volta bei romanzi, bei film, che lasciavano qualcosa dopo averli letti, o visti: quesiti, sensazioni, riflessioni. Vedendo film come Corsa a Witch Mountain viene da pensare che opere del genere non esistano più, e bastino invece dei protagonisti bellocci, tanta azione e un ex wrestler che si pesta di botte contro un cugino di secondo grado del Predator a fare una buona pellicola di intrattenimento per ragazzi. Per carità, il film il suo scopo lo ottiene, e non è brutto, ma è decisamente, tristemente, povero. Di idee, di contenuti, di fiera realizzazione tecnica. E la Disney non può permettersi certi passi falsi, in un periodo in cui va avanti a musicarelli.

5

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