Recensione Child of God

James Franco racconta la cruda storia di un serial killer

Recensione Child of God
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Nato il 27 Agosto del 1906 a La Crosse e deceduto il 26 Luglio del 1984 a Madison, Edward Theodore Gein, meglio conosciuto come Ed Gein, fu uno dei pericolosi individui che hanno provveduto a insanguinare le cronache del XX secolo, in quanto accusato di due omicidi e sospettato di altri, oltre a essere noto per il suo macabro culto del fabbricare oggetti d’arredo casalingo usando parti di cadaveri.
Una figura talmente inquietante che non poteva certo lasciare indifferente l’universo della Settima arte, la quale, prima ancora di dedicargli i lungometraggi Ed Gein - Il macellaio di Plainfield (In the light of the moon) (2000) di Chuck Parello ed Ed Gein The butcher of Plainfield (2007) di Michael Feifer, aveva avuto modo di attingervi, tra l’altro, per creare i personaggi di Norman Bates e Leatherface, rispettivamente protagonisti delle saghe Psycho e Non aprite quella porta.
Una figura che sembrerebbe rientrare anche tra le fonti di ispirazione per quella di Lester Ballard, sfrattato dal carattere violento la cui vita altro non è che un disastroso tentativo di esistere al di fuori dell’ordine sociale nella montuosa contea di Sevier, in Tennessee.
Sfrattato definito “figlio di Dio” e che troviamo al centro del lungometraggio di James Franco, interprete della trilogia raimiana Spider-man, basato sull’omonimo romanzo di Corman McCarthy.

Figlio di un dio minore?

Sfrattato magistralmente incarnato da Scott Haze e che, rimasto dapprima senza i genitori, poi privato della casa, scende sia letteralmente che simbolicamente al livello di un cavernicolo, man mano che la sua vita sprofonda sempre più nella degenerazione e nel crimine.
Infatti, Franco spiega: “Che cosa fa l’individuo quando non riesce a tenere il passo con tutti i nuovi sistemi di civilizzazione e socializzazione? Lester passa dalla fattoria alla capanna, alla caverna e, infine, a un vero e proprio vagabondaggio sotto terra. È un reietto, con il quale, tuttavia, possiamo noi tutti, essere collegati. La chiave del film sta nella proposta di qualcosa che è sia intenso sia guardabile. Lester è effettivamente un killer e un individuo disturbato, in alcun modo il suo comportamento è perdonabile, ma nella sfera dell’arte un personaggio come lui può essere utilizzato per studiare ciò che c’è dentro ciascuno di noi. E, diamine, quell’uomo è perfino un po’ divertente. E’ un killer imbranato. Per metà Un-tranquillo-weekend-di-paura e per metà Charlot”.
E, tra atti necrofili e una ambientazione boschiva la cui atmosfera sembra quasi rimandare a un certo horror degli anni Settanta alla L’ultima casa a sinistra (1972) di Wes Craven, è ricorrendo alla giusta dose di crudezza che l’attore regista originario di Palo Alto - che si ritaglia anche un piccolo ruolo - ricorre per concretizzare una squallida vicenda di emarginazione sociale la cui messa in scena può richiamare alla memoria Essential killing (2010) di Jerzy Skolimowski.
Del resto, proprio come nella riuscita pellicola interpretata da Vincent Gallo, è la disperata performance del protagonista ad essere privilegiata rispetto ai dialoghi, permettendo di prendere progressivamente forma ad un insieme che, impreziosito dalla bella fotografia di ChristinaSalVoros, non manca di risultare altamente coinvolgente, sebbene dieci minuti in meno nella durata gli avrebbero giovato di sicuro.

Child of God Senza sprecarci troppo in parole, senza dubbio uno dei migliori film passati presso la settantesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Non un horror, ma che presenta elementi non distanti da quelli di tanti film dell’orrore, un altamente coinvolgente insieme perfettamente costruito sulla performance dell’ottimo protagonista Scott Haze e per meglio capire il quale riportiamo la dichiarazione del regista James Franco: “Child of God è basato sull’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. La figura del protagonista -o antiprotagonista-, Lester Ballard, si richiama anche a Ed Gein, un killer che è realmente esistito negli anni Cinquanta e che ha inoltre ispirato il libro Psycho di Robert Bloch. E’ affascinante notare come tre prodotti molto diversi fra loro possano derivare dalla stessa fonte. In questo progetto vedevamo la possibilità di analizzare l’isolamento estremo. Quel macabro tema sarebbe stato affrontato in maniera responsabile, ma la sua funzione principale era di mostrare, in un modo certamente intenso, che cosa significhi volersi disperatamente collegare ad altri esseri umani e non essere capaci di farlo. È stato, questo, il nostro approccio: presentare un uomo desideroso di comunicare con i morti in quanto erano i soli che non l’avrebbero rifiutato. Egli è spinto in questa terribile situazione perché è stato completamente escluso dalla società civile”.

6.5

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