Recensione Cella 211

Recensione del film carcerario di Daniel Monzón vincitore di otto premi Goya

Recensione Cella 211
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"Quando mi capitò tra le mani il romanzo Celda 211, lo lessi tutto d'un fiato e capii immediatamente che avrei voluto portare la storia sul grande schermo. Già l'inizio del racconto era impressionante: introduceva un universo potente, realistico e di grande umanità, e per tutto l'arco narrativo la vicenda si sviluppava mantenendo una tensione a dir poco soffocante, con alcuni colpi di scena memorabili".
A parlare è lo spagnolo Daniel Monzón, regista nel 2006 del fanta-thriller interpretato da Timothy Hutton The Kovak box-Controllo mentale, il quale, partendo da un romanzo di Francisco Pérez Gandul, torna dietro la macchina da presa con quello che, presentato presso l'edizione 2009 della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia e vincitore di diversi premi in giro per i vari festival, si è aggiudicato ben otto Goya (ovvero gli Oscar iberici), tra cui quello per il miglior film e per la migliore regia.
Con il volto di Alberto Ammann, qui al suo esordio su grande schermo, al centro della vicenda troviamo il giovane Juan Olivier, il quale, al suo primo incarico come secondino in un carcere di massima sicurezza, si presenta al lavoro con un giorno d'anticipo, finendo però per essere colpito alla testa da un frammento d'intonaco caduto da una parete in ristrutturazione proprio durante una sua visita al braccio che rinchiude i detenuti più pericolosi. Tra cui il carismatico leader Malamadre, con le fattezze di Luis"Miami Vice"Tosar, il quale, mentre le guardie fanno riprendere il ragazzo all'interno della cella 211, al momento vuota, assume il controllo del braccio e scatena una vera e propria rivolta coinvolgendo anche il povero Juan,a sua volta costretto a fingersi detenuto appena trasferito nel posto.

Prigioniero di un incubo

"Per quanto Celda 211 fosse un romanzo di finzione, il primo passo per poter ricostruire una storia ambientata in modo realistico in un carcere, era quello di conoscere ciò che si nascondeva in questo mondo, così vicino a tutti noi e al tempo stesso così distante. Al momento di scrivere la sceneggiatura, Jorge Guerricachevarría e io dovevamo essere consapevoli di ciò che raccontavamo, anche per sapere fino a che punto potevamo eventualmente spingerci nel dire cose non verosimili. Durante tutto l'anno in cui eravamo impegnati con la scrittura, abbiamo cercato di trascorrere quanto più tempo possibile con tutti coloro la cui vita quotidiana fosse strettamente associata a quella del carcere, e abbiamo dunque parlato con i detenuti, le loro famiglie, le guardie carcerarie, gli educatori, cercando di incontrarli in più occasioni e con frequenza. Tutti ci hanno svelato il loro mondo, dimostrando una sorprendente, per quanto comprensibile, ospitalità" continua il regista, la cui pellicola apre immediatamente con l'immagine forte e impressionante di un uomo che si taglia le vene.
D'altra parte, sia nei concetti che nella descrizione dei diversi personaggi, tutti interpretati da attori decisamente in parte, Cella 211 non sembra discostarsi poi molto da certi prodotti tipicamente horror, tanto da spingere non poco lo spettatore a pensare agli zombi durante le sequenze di massa della rivolta.
Rivolta in cui ci si concentra in maniera principale sul rapporto di amicizia occasionalmente instaurato tra il protagonista e Malamadre, due uomini dalle esistenze lontane ma rese vicine in poco tempo da un destino beffardo in un ambiente chiuso come quello della prigione, ovvero il riflesso in forma concentrata della stessa società che lo ha generato.
Per circa 110 coinvolgenti minuti di visione che, caratterizzati da una struttura narrativa non priva di flashback, si costruiscono su una tesa e mai prevedibile sceneggiatura, affrontando tematiche sociali con uno stile non distante da quello alla base di buona parte del cinema di genere, un po' come fece nel 2007 Rodigo Plá nel messicano La zona. Sebbene Monzón faccia ampio ricorso a riprese a mano per conferire al tutto uno stile documentaristico.

Cella 211 Più che un film di genere, una tragedia a pieno titolo basata su ciò che, inesorabilmente, potrebbe modificare per sempre la nostra vita. Una tragedia che lo spagnolo Daniel Monzón inscena superbamente tra le claustrofobiche pareti di un carcere di massima sicurezza, forte di un ottimo cast caratterizzato da volti e corpi interessanti, oltre che di uno script ricco di colpi di scena e capace di non risultare mai banale. Per un’operazione su celluloide che sembra possedere tutte le carte in regola per poter essere trasformata dagli americani in un loro, ennesimo remake. Magari diretto da Kathryn Bigelow.

7

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