Recensione Ballata dell'odio e dell'amore

Recensione del film di Alex de la Iglesia che si è aggiudicato il Leone d'argento per la miglior regia a Venezia

Recensione Ballata dell'odio e dell'amore
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"Sto facendo questo film per esorcizzare un dolore nella mia anima che proprio non vuole andare via, come macchie d'olio. Mi lavo i miei vestiti con i film. Mi sento deriso, orribilmente
mutilato da un passato meraviglioso e triste, come se stessi annegando nella nostalgia per
qualcosa che non è mai accaduto, un enorme incubo che non mi permette di essere felice.
Voglio annientare la rabbia e il dolore con una battuta grottesca che possa far ridere e piangere allo stesso tempo. Sono due persone, forse di più. Sono in grado di fare fuori un bambino viziato, vigliacco e crudele, che gode a pizzicare le guance a quelli più deboli di lui. So che mi odia e vuole distruggermi, ma l'unico modo che ho per non farmi torturare e' lasciarlo fuori. Ha bisogno di divertirsi, ridere fragorosamente, vomitare su tutta la celluloide".
A parlare è lo spagnolo classe 1965 Alex de la Iglesia, il quale, impostosi all'attenzione del pubblico nel 1993, anno in cui diresse il suo lungometraggio d'esordio Azione mutante, storia fanta-grottesca incentrata su una guerra civile tra i padroni del look, che detengono il potere sul pianeta Axturia, e i freaks di Acción mutante, non ha impiegato molto tempo a trasformarsi in uno dei nomi di punta della produzione di genere iberica d'inizio XXI secolo.
Infatti, oltre alla black comedy Crimen perfecto, del 2004, la sua carriera registica annovera memorabili titoli come El dia de la bestia, interpretato, tra gli altri, dalla nostra Maria Grazia Cucinotta, La comunidad-Intrigo all'ultimo piano, con Carmen Maura, e Perdita Durango, tratto dal racconto Degrees and raining: The story of Perdita Durango di Barry Gifford.
Senza contare la poco riuscita escursione americana rappresentata dal soporifero thriller Oxford murders-Teorema di un delitto che, datato 2008, va a precedere questo Balada triste de trompeta, vincitore del Leone d'argento per la migliore regia presso la sessantasettesima Mostra d'arte cinematografica di Venezia.

Ridi pagliaccio!

Il film apre nel 1937, durante la guerra civile spagnola, con le scimmie di un circo impegnate ad urlare selvaggiamente all'interno delle loro gabbie e gli uomini che si dedicano agli spargimenti di sangue, mentre il Pagliaccio triste, arruolato contro il suo volere dalla Milizia e con il proprio costume ancora addosso, massacra a colpi di machete i soldati nazionalisti. Poi, ci si sposta a molti anni dopo, sotto il regime di Franco, con Javier alias Carlos Areces, figlio del Pagliaccio triste, che trova lo stesso lavoro del padre presso un circo dove conosce una serie di strani personaggi, dall'Uomo cannone a una litigiosa coppia di addestratori di cani, passando per il domatore di elefanti.
Ma anche il Pagliaccio allegro Sergio, interpretato da Antonio de la Torre, che si rivela suo rivale dal momento in cui, spinti dalla rabbia, dalla disperazione e dalla lussuria, i due, orrendamente sfigurati, cominciano a lottare duramente tra loro per la conquista della acrobata Natalia, con le fattezze di Carolina Bang, la donna più bella e più crudele del circo.

La ballata triste di Alex

"C'è anche una donna anziana, consapevole della sua età e della sua ignoranza, soprattutto per sua colpa" prosegue de la Iglesia, "Vorrebbe amare con passione, ma sa che non è possibile. Vuole essere apprezzata, desidera con tutte le forze di far felici gli altri, anche se non sa come godersi la vita. Forse queste due strane creature definiscono il film. La loro lotta è un riassunto della mia vita, di quello che ho visto intorno a me, una confusione assurda, sia grottesca e deludente, ma anche incredibilmente toccante nella sua stupidità. Voglio che il film abbia luogo nel 1973, quando avevo otto anni. Ricordo quel tempo come un sogno, un incubo che non aveva senso. Forse era l'anno in cui la realtà è stata più come un sogno. El Lute, la morte di Carrero Blanco, i pagliacci della tv... Sono tutti riuniti nella mia memoria. Non sono sicuro di chi fossero quel clown e quel bambino in quella strana allucinazione".
Con titoli di testa accompagnati in maniera affascinante dalle risate dei bambini ed immagini di taglio tipicamente felliniano presenti già a partire dai primissimi minuti di visione, è chiaro, quindi, che siamo dinanzi ad un'operazione dal sapore allegoricamente autobiografico.
Un'operazione che, tramite l'immersione in un periodo storico che ha significato molto per la Spagna, sia nel bene che nel male, de la Iglesia costruisce sfoggiando uno spirito fortemente pessimista, tanto che non sembra mai esservi spazio per la speranza durante i 107 minuti totali.
D'altra parte, è proprio questo uno degli aspetti che contribuiscono a rendere interessante il suo film, riflessione sulla follia, sulla guerra e, soprattutto, sulla violenza, che confeziona senza mai dimenticare, però, di ricorrere agli stilemi capaci di rendere apprezzabile un prodotto di genere.
E, tra splatter ed esplosioni, è la bella fotografia di Kiko de la Rica a rendere ancor più accattivanti le colorate figure che, forti anche di un cast in gran forma, popolano la scena, a partire dal già citato clown con machete alla mano.
Infatti, l'unico rischio che corre la pellicola, veloce ma forse eccessivamente caotica in alcuni tratti, è quello di fagocitare tutti i suoi contenuti attraverso una certa, evidente smania di estetismo.

Ballata dell'odio e dell'amore Lo spagnolo Alex de la Iglesia si aggiudica il Leone d’argento per la miglior regia presso la sessantasettesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia con una pellicola che, ambientata durante il periodo del regime di Franco, presenta un evidente sapore autobiografico nel fondere rivalità sentimentali e riflessioni sulla guerra e sulla follia. Con molta violenza, ritmo narrativo indiavolato e, soprattutto, tanto senso dell’estetica, il quale rischia perfino di occultare gli interessanti contenuti di una apprezzabile operazione che, in ogni caso, non risulta neanche priva di una certa poesia.

7.5

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