Recensione Antichrist

Quale è la verità maledetta di Lars von Trier?

Recensione Antichrist
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Porno-horror?

Scandalo a Cannes. Fischi e sdegno per l'ultimo sforzo del regista "cult" Lars von Trier, colui che tenta sempre di redigere manifesti cinematografici ad ogni esibizione, laddove probabilmente il più riuscito rimane quello del "cinema fusionale" di Dogville. Certo il tempo passa, certo quei caracolli della Kidman sfumano, ma colpi da sparare il danese ne ha. E di maledetti. Dunque fischi per quest'ultima opera che dirsi controversa è soffice eufemismo. Il regista ha replicato agli sdegnati asseverando che il film è fatto per sè e non per loro. C'è da crederci, sebbene con qualche riserva. Poichè Lars, utilizzando la prima trama baluginata quale, come il cinema d'autore vuole, rimane sullo sfondo, si fa pretesto per notomizzare le oscurità delle mente, la depressione più profonda e micidiale di cui l'autore ha sofferto. Un film, di fatto, autobiografico quindi. Marito (Willem Dafoe) e moglie (Charlotte Gainsbourg) nel mentre consumavano un appassionato amplesso notturno, si ritrovano orbati del figlio che, con inspiegata delicatezza, si libra dalla finestra, costringendo i genitori a dover fare i conti con il dolore più stringente, casus belli che darà adito allo scorrere nero ed allucinato che è il film. Ma si chiarisca subito che questo non si tratta del più o meno consueto, e più o meno banale, lavorìo di retrospezione psicologica. Basta far sovvenire la definizione più sussurrata per qualificare il lavoro: porno-horror. E c'è molto di più.

Chi è l'Anticristo?

Lui esercita la professione del terapeuta e dapprima rappresenta il metodo, la razionale eleborazione del lutto. La donna invece è l'accoramento furioso, l'irrazionale. Del tutto incapace di relazionarsi ad un dramma così improvviso. Lei diventa la sua paziente. Ma la femminilità della donna non scomparirà, anzi, l'unione immediata che Lars sancisce tra Eros e Thanatos - da esemplari lezioni freudiane - sarà sempre più stretta, sino a raggiungere i suoi (ne)fasti in scene già divenute culto, quali eiaculazioni sanguinolente e auto-infibulazioni in strettissimo piano (con seguenti uggiolìi di disgusto espettorati dalla bennata platea delle buone visioni manierate...).Sesso e morte inscindibili sino alla fine, in un uragano che non conosce soste, che mozza il fiato per tensione, che scrive un horror eludendo totalmente i canoni stantìi dello stesso. I due termini come assoluti veicoli di infetta comunicazione tra i due unici attori della scena. Trier pensa per archetipi che con sapienza trasla in immagini: la casa sperduta nel bosco, la vegetazione, la molteplicità della donna - tema tagliente, primo motivo di critiche dato l'apparente sessismo.Il lavoro è scandito da quattro capitoli (più prologo ed epilogo). Incedere che evidenzia come la relazione di coppia non riesca a sostenere il peso dell'afflizione, nonostante appaia complementare, ma il regista dispiega come il confine tra raziocinio ed escandescenza è sottile, come la natura istintiva prevalga. Ed è proprio la rappresentazione della Natura la chiave di volta dell'intiera opera. Che tipo di Natura è quella di Lars von Trier?Ecco la verità maledetta. La Natura è Satana, il mondo è la sua Chiesa (come dice la moglie in un momento di lucidità) e l'essere umano altro non è se non un inerme ricettore in balia di questi due poteri. Ecco spiegato il titolo. Benchè, parole del regista, non si debba troppo tentare di razionalizzare giacchè questo è un viaggio nero nell'irrazionale. Il processo inizia quando, in uno dei distensivi esercizi che il marito-terapeuta propone, la moglie si fonde, in una dimensione tutta mentale, con la natura, metamorfizzandosi col verde. Inizia quindi quel senso di finitudine da poesia rilkiana, che impregnerà tutta la pellicola. Così la donna non potrà più sopportare il calpestìo dell'erba, ghiande battenti sul tetto azioneranno sensazioni sinistre, in un'esclalation di brutture animalesche che trovano infernali araldi nel quarto capitolo sottoscritto come "i tre mendicanti" (corvo, daino, procione) che imporranno la morte. In questa cosmogonia di demoniaca panicità (dove tutti i buoni propositi ecologisti vengono ribaltati con autentico spirito contraddittorio!) la mente tenta disperatamente di rielaborare la paura, l'inconscio, il dolore...sino ad esplodere. La sofferenza scatena una paura ancestrale che viene da lontano, da una maternità già disturbata (si faccia attenzione ai piedi distorti del figlioletto scomparso) qui in effetti mostrata con livore sessista, da una trasfigurazione allucinata delle esperienze emotive nel luogo. E dalla paura, dal dolore, deflagra la violenza. La natura è la chiesa di Satana ed il vento è il suo respiro. L'ordine è obliterato, il rapporto tra Uomo e Natura si rivela fortemente gerarchico, laddove la Natura è quel sergente talmente pervasivo sì da essere l'essenza caotica dell'uomo stesso. La Natura è il male indefettibile ed ineluttabile che tutto volge in sofferenza ed esizio, capace di manifestarsi in tutta la sua potenza distruttiva ed ecco che il sesso è congiunto alla morte in scene di gusto medioevale che lo chiariscono senza censure: la sceneggiatura si zittisce, si fa aforisma lapidale chiosato dalla mutilazione del piacere, per giungere ancora in un finale tutto da meditare, ma non indecifrabile.

Satana, la natura e la donna

Il montaggio da principio parte scontroso, cuce scarti tesi a render più imprudentemente ficcante lo sguardo, che visita con assidui dettagli i volti degli attori, per poi farsi più omogeneo, lasciando spazio e tempo solo alla potenza delle immagini perfettamente amplificate da una ambient music che attinge dal repertorio più lugubre. Il montaggio squaderna il dolore, la musica potenzia il caos infernale che è la natura e le immagini allegorizzano, richiamano anche una certa teratologica figurazione cinquecentesca sino a tirare in ballo Bosch e la miniatura pre-industriale della secentesca caccia alle streghe.Un montaggio spesso parallelo, ma non certo narrativo. Una parte dedicata al fenomenico, al carapace dei volti, l'altra al profondo, alle immagini irrazionali della psiche, agli scorrimenti veloci, addirittura subliminali, che annunciano l'esponenziale cesura. In questa suggestiva zoppia della figura il regista crea brividi, strappi d'inquietudine che lacerano la dittatura del sorriso. La cinepresa non conosce stabilità, anzi singhiozza seguendo le palpitazioni del dolore e degli ansiti. Senza attenuanti la macchina tenta arditamente il flusso di coscienza come solo una certa letteratura a la Joyce può fare; per poi esplodere nelle sevizie, nella ferocità femminile dove una vibrante nudità ed una tesissima fisicità sono segni di grande comunicazione; primo androne verso l'inferno dal quale solo l'uomo, affrancatosi dalla disperata "persecuzione delle donne" (terzo capitolo), può uscire più forte.

Antichrist Nel bel mezzo del film, una volpe, in qualità di lacerante banditrice dell'inferno, con voce chioccia, sussurra nelle mente del protagonista: "Qui, regna il caos".

7

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