Intervista Ruggero Deodato

«I miei non sono film horror: non ho mai visto film horror e odio lo splatter. Io racconto la realtà, i miei film sono tutti sulla verità». Ruggero Deodato si racconta in esclusiva a Everyeye.it

Intervista Ruggero Deodato
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Quentin Tarantino si confessa spesso suo fan, Eli Roth lo ha voluto nel suo ultimo film The Green Inferno (disponibile nel nostro Paese grazie a Koch Media e Midnight Factory), negli anni '90 gli proposero di dirigere un film su Spider-Man, in Francia lo conoscono come Monsieur Cannibal e con il suo Cannibal Holocaust è stato probabilmente il primo a usare la narrazione basata sulle riprese effettuate dai protagonisti. Eppure di Ruggero Deodato in Italia non si parla spesso, se non a ridosso dell'uscita di un suo film, adesso che la comunicazione è molto più fitta e più a portata di tutti. Noi l'abbiamo incontrato per un'intensa mezz'ora di intervista, iniziata con l'intenzione di raccontare i suoi film, ma rapidamente spostatasi verso una conversazione generale sull'intera industria cinematografica.

CANNIBAL HOLOCAUST

Si parte dal principio, sempre, e da quello che è il simbolo di Ruggero Deodato: Cannibal Holocaust. «Se non avessi fatto Cannibal Holocaust probabilmente non sarei qui a parlare con lei. Penso che quel film sia arrivato un po' come arriva il coniglio nel cilindro di un mago: è raro che possa ripetersi più di una volta. Però non ha avuto un grande successo in Italia, anzi direi che è stato quasi sfortunato. Chiaramente mi ha dato qualche guaio, ma nonostante questo in Italia nessuno si ricorda di me per quel film: tutti pensano a Ruggero Deodato per I ragazzi del muretto, per la pubblicità di UniEuro, ma nessuno parla di Cannibal Holocaust né di Uomini si nasce poliziotti si muore. Non si fanno più film così, nessuno in Italia ce la fa, eppure un film come quello non viene valorizzato, nessuno pensa mai a quello che ho fatto oltre alle pubblicità o alle fiction. Se invece ti trovi ad andare fuori dal mio Paese, già per esempio a Lugano, tutti mi accolgono a braccia aperte. D'altronde basti pensare che Quentin Tarantino e Eli Roth mi hanno dato più soddisfazione...».

Proprio sul rapporto con il regista di The Hateful Eight battiamo, per sottolineare l'importanza che Deodato, con i suoi film, ha avuto all'estero, fuori dal proprio Paese: «Tarantino disse, quando è venuto a Venezia, che sarebbe venuto soltanto se avesse avuto la possibilità di incontrarmi: vedemmo insieme Cannibal Holocaust. Eli Roth mi ha portato con sé al Festival di Roma, nessuno se l'aspettava. Per me sono tutte dimostrazioni d'affetto, che però arrivano solo dall'estero. Ma voglio essere chiaro: io non recrimino, perché non mi interessa fondamentalmente. A me piace il mio lavoro, mi piace stare dietro la macchina da presa, se mi chiamano per girare qualcosa io sono contento, perché significa che servo ancora a qualcosa. Non sono mai caduto in depressione, non mi sono mai arreso: se ci pensiamo, ora, ho ben 56 anni di lavoro sulle spalle. Certo, non ho mai avuto un premio italiano, ne ho di tutto il mondo, ma dal mio Paese no. Non mi lamento, comunque: sono un regista felice. Sarà che mi propongo male, mi vesto male, non sono schierato politicamente, sono sempre sobrio, mi danno del "pariolino" e quindi non mi considerano».

«Era il 1976 e vidi su National Geographic delle foto di una tribù di cannibali: sembrava di vedere un film preistorico, tutti che accendevano il fuoco con le pietre, armati di scure, insomma era proprio l'età della pietra. Ne rimasi affascinato, poi a quei tempi fare un film era molto più facile: presentavi l'idea al produttore ed era molto più semplice realizzarla. Andai subito in Malesia insieme con Stefano Rolla, che all'epoca era il mio aiuto regista, poi morto a Nassirya mentre faceva delle riprese per un film ambientato in Iraq: partimmo senza problemi. Certo, ci misi tre anni per fare quel film. Col senno di poi, però, ti dico che è stato meglio così: ci ho lavorato di più, sono riuscito a inserire più cose, ho realizzato un canovaccio migliore di quello originale. National Geographic mi ispirò tantissimo, lo portai con me nei miei viaggi e riproposi molte di quelle fotografie nei miei film: ricordo benissimo quella di un piatto indios che era composto da una foglia di banana, vermi, lichos, bacarozzi e pesci. Lo riproposi uguale nel film. Tra l'altro lì la giungla era talmente umida che se infilavi le mani nel terreno riuscivi a pescare. Ero incredibilmente affascinato da questa situazione. Cannibal Holocaust, in ogni caso, era più una denuncia giornalistica, realizzato in cinque settimane, utilizzando soltanto la mano sinistra. Invece Ultimo mondo cannibale è stato molto più faticoso: ci ho messo otto settimane».

DA ROSSELLINI AL CINEMA DI GENERE

Deodato ha sempre parlato di Roberto Rossellini come suo maestro e durante la nostra chiacchierata, a microfoni spenti, si inizia a parlare proprio di lui, ma incautamente ci ritroviamo a usare un termine che al regista non va a genio: horror. «Ho fatto qualche film horror, ma la mia filmografia non lo è. Forse Il telefono che uccide è horror, ma io il cinema horror non l'ho nemmeno mai visto. Tolti i capisaldi come Shining, The Others, Rosemary's Baby, L'Esorcista, non li ho visti. Odio gli splatter e trovo che i film con gli zombie siano ridicoli, di una meccanica che si ricicla sempre. Ricordo che nell'81 dovevo fare un film sugli zombie, in Messico: accettai, ma in quel periodo mio padre stava per morire, quindi lo raggiunsi al suo capezzale per assisterlo nei suoi ultimi giorni di vita. Sebbene fosse in condizioni tragiche, passò un po' di tempo prima che morisse e questo rimandò la mia partenza per il Messico: la concitazione del momento, in ogni caso, mi spinse a essere scontroso con la produzione, che non capiva il mio momento di sofferenza e quindi il progetto saltò. Forse se avessi fatto quel film oggi sarei come George Romero, ma poi sono andato avanti, insomma. La storia non era nemmeno tanto male, ma sottolineo: io devo sempre metterci le mani sulla sceneggiatura. Non dico che devo rifarla, ma devo avere la libertà di adattarla alle mie esigenze. Ora sono stato chiamato per fare un film: il titolo mi piace tantissimo perché era qualcosa che volevo fare da vent'anni, ma leggendo la sceneggiatura mi sono intristito. È uno scritto troppo classico, vecchio: volevo rinunciare. Poi mi hanno fatto capire che potevo adattarla e quindi ci ho ripensato».

A più riprese, durante il nostro incontro, capita di criticare il cinema italiano, un cinema che non riesce più a ripetere le pellicole che sono state realizzate da Deodato: «Al nostro cinema manca la capacità di emergere nel film di genere. Se ne fanno diversi, sì, ma non siamo ad altissimi livelli. Non essere cattivo di Claudio Caligari è un capolavoro, lo devo ammettere. Non ho ancora visto, invece, Lo chiamavano Jeeg Robot, ma me ne stanno parlando tutti bene (gliene parliamo anche noi bene, ndr). Ha avuto una grande pubblicità, c'è da dire, magari ce l'avessi anch'io questa spinta pubblicitaria. Io stavolta nel mio sono riuscito ad avere un'idea forte e secondo me servono idee di questa portata: confesso che alla fine c'è una mia personale vendetta verso l'attualità che colpisce l'Italia, verso questi casi irrisolti di omicidi che spesso dobbiamo ascoltare nei fatti di cronaca. Spero soltanto che la censura non mi dia fastidi, perché non accetterò che mi si dica che sarà un film vietato ai minori di 18 anni. Suburra era vietato ai minori di 14 anni, quindi anche il mio dev'essere così. Al massimo. Altrimenti nessuna censura».

«L'Italia comunque sta attraversando un periodo cinematografico in cui preferisce fare solo commedie. La verità è che la commedia si realizza più facilmente, ci metti poco a farla. Però non è che siamo poi così bravi a far ridere, noi. Spesso prendiamo soggetti dalla Francia, tant'è che mi sono meravigliato che l'ultimo film di Paolo Genovese (Perfetti sconosciuti, ndr) sia un soggetto originale. Anzi, mi hanno detto che lo hanno anche venduto all'estero, quindi mi fa piacere. Però pensiamo anche ad altri generi, proprio al film di genere: chi si mette a disposizione? Non c'è più Franco Nero, non c'è più attore che possa fare la parte del cattivo in Italia!». Gli suggeriamo Luca Marinelli, lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot, pur sottolineando qualche riserva sul passato dell'attore, che con Saverio Costanzo e con Paolo Virzì non si era esaltato: «Non provo grande stima per i film di Costanzo, però - incalza Deodato - ma i film di Virzì li ho visti tutti. Il mio preferito è quello che si basa sul dibattito tra sinistra e destra (Ferie d'agosto, ndr). Come "cattivo" altrimenti di recente ho visto Elio Germano interpretarne uno (ha recitato in Faccia d'Angelo, la miniserie di Andrea Porporati), lui è sicuramente buono per il cinema di genere. Ma sono pochi, vedi? In Italia valorizziamo troppo le commedie: a me piace anche Frassica, ma si può sempre proporre lui in ogni film?».

In chiusura con Deodato arriviamo a quelli che sono i suoi film preferiti nell'arco della sua filmografia: «Cannibal chiaramente è il mio preferito. Uomini si nasce poliziotti si muore anche, perché un regista americano, di cui non ricordo mai il nome, mi ha detto che un inseguimento così non l'aveva mai visto. Anche Tarantino me l'ha detto. Lo rivedo sempre con piacere. Ce ne sono comunque diversi che in passato odiavo e adesso ho imparato ad apprezzare di più, come anche The Barbarians. Un altro film che ho imparato ad apprezzare è anche Delitto poco comune, che ha alcune scene molto belle, secondo me. L'ultimo che ho fatto, però, è al secondo posto dopo Cannibal: mi sono innamorato di tutti e quattro gli attori, che sono stati meravigliosi. Sono tre italiani e un inglese, ma hanno recitato tutti in inglese: l'attrice protagonista, poi, è fantastica. Il prossimo film che farò la porterò con me, ma mi dispiace tanto per lei». Perché? «Perché in Italia non farà mai più un altro film: non può fare la commedia».

Mentre ci salutiamo, riprendendo il mai domo discorso sul cinema italiano, la domanda è necessario: Paolo Sorrentino? «La Grande Bellezza mi è piaciuto tantissimo. E sai cosa c'è da dire? Che l'hanno capito in pochi. Ma a me è piaciuto, tanto».

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