Intervista Padri e figlie - Incontro con Gabriele Muccino

Il romano Gabriele Muccino ha incontrato la stampa nella capitale per raccontare la sua quarta esperienza registica in terra americana, stavolta alla direzione di Amanda Seyfried e Russell Crowe.

Intervista Padri e figlie - Incontro con Gabriele Muccino
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A tre anni da Quello che so sull'amore, che vide protagonisti nel 2012 Gerard Butler e Jessica Biel, Gabriele Muccino torna nelle sale cinematografiche italiane con il suo quarto lungometraggio concepito in terra americana: Padri e figlie, distribuito da 01 Distribution a partire dal 1 Ottobre 2015. Davanti al suo obiettivo di ripresa abbiamo stavolta la Amanda Seyfried di Cappuccetto rosso sangue nei panni di Katie, ragazza che vive a Manhattan da anni lontana dal padre Jake Davis alias Russell"Il gladiatore"Crowe, romanziere premio Pulitzer rimasto vedovo e che ha lottato e continua a lottare con un serio disturbo mentale che lo ha accompagnato durante la crescita della figlia, ancora alle prese con una infanzia tormentata e l'incapacità di abbandonarsi ad una storia d'amore.
Proprio in occasione dell'arrivo della pellicola in terra tricolore, il regista ha incontrato a Roma la stampa, dinanzi alla quale non ha mancato neppure di elogiare la serie televisiva Narcos, creata da José Padlha per Netflix.

Parola di Gabriele

Quali differenze ci sono tra questo film e gli altri tre che hai fatto in America?
Ogni film ha avuto una sua storia. Chiunque voglia fare il regista in America deve attraversare un lungo percorso fatto di cinema indipendente prodotto con pochissimi soldi, passare per il Sundance e farsi notare, io, invece, dopo aver girato Ricordati di me, lessi un'intervista di Giovanna Grassi a Will Smith in cui lui parlava ampiamente di me. Poi, lui voleva incontrarmi e sono passato sulla testa di milioni di registi che volevano fare ciò che io desideravo, battendo anche la concorrenza di altri due o tre bravissimi che volevano girare La ricerca della felicità. Io fui imposto direttamente da Will Smith, che era convinto io fossi l'unico al mondo capace di concepire quel film. Rimane un mistero, una storia, assurda, incredibile, ma è la mia, quindi ho iniziato lì facendo un film da sessanta milioni di dollari di budget prodotto da Sony e con una star che ne prendeva venti, anzi dieci perché non lo considerava un blockbuster. Non avevo mai fatto film così drammatici e credevo non lo avrebbe visto nessuno, mentre è diventato un blockbuster e ho vissuto un momento in cui avrei potuto fare di tutto a Hollywood, ma ho detto di no a moltissime cose perché il mio essere regista viene comandato unicamente dall'urgenza di raccontare qualcosa di personale ed attinente alla vita. Io avrei voluto venire dalla scuola di Zavattini, Age e Scarpelli, Bob Fosse, Salvador di Oliver stone, Woody Allen, Un uomo da marciapiede, film che si facevano negli anni Settanta negli studi della Paramount e che oggi non si fanno più. Perché oggi fanno solo i film che hanno la sicurezza di avere un pubblico planetario, per vendere giocattoli e pupazzetti, come quelli della Marvel, Star wars in tutte le misure e dimensioni, Hunger games, Twilight e i vari franchise tratti da libri molto popolari. Un modo di fare che, ciclicamente, avviene a Hollywood dagli anni Venti, quindi, questo è un momento di transizione di quel tipo. Io, per esempio, non credo nei vampiri, non saprei cosa raccontarvi in proposito, quindi, anziché fare film come Twilight, che ti fanno comunque vivere di rendita, ho scelto di fare quelli che lì chiamano "film d'arte", difficili da mettere insieme, ma che oggi si fanno sempre meno, sono stati scippati in modo egregio dalla televisione. In America ho avuto due esperienze molto felici e una molto infelice, perché, appena firmato il contratto, mi hanno impedito di mettere le mani sulla sceneggiatura e il protagonista si riscriveva le scene, pretendeva di girarle a modo suo, creandomi delle ulcere (ride). Per quanto riguarda questo film, mi sono immediatamente innamorato della sceneggiatura, è stato molto complicato nel montaggio e nell'elaborazione della struttura, in quanto non è un film corale o con diverse storie, ma costruita su un'unica storia con diverse trame che si intersecano. È, in qualche modo, il mio film più completo e compiuto. I produttori, poi, hanno rispettato il lavoro del regista.

È soltanto casuale il fatto che, di quattro film girati in America, tre riguardano il rapporto tra un padre ed il figlio piccolo?
Ho provato anche a fare altri film in America, tra cui uno di fantascienza che ora, dopo dieci anni, pare riescano a girare. È stato un po' un caso, perché io ho risposto a questo materiale perché, evidentemente, mi colpisce e mi emoziona e, come dicevo prima, mi fa sentire l'urgenza di raccontare una storia. Forse, posso dire con certezza che si tratta del mio ultimo film riguardante questo tema, perché non credo che sarò in grado di farne uno migliore in proposito. Se vogliamo, anche Sette anime era un film sulla paternità, perché, in qualche modo, riguardava qualcuno che, comunque, genera vita.

Il finale del film è stato scelto da te o ti è stato imposto?
Il finale era diversissimo, al primo incontro che feci con i produttori avevo molte cose da cambiare, tra cui proprio il finale. Era completamente diverso, non ti dico com'era ma non puoi immaginare (ride).

Puoi parlarci del lavoro sul corpo effettuato con Russell Crowe?
Russell Crowe ha una sua fisicità che conosciamo da Il gladiatore e, io che oggi lo conosco bene, posso dire che lui è il gladiatore, non ha impersonato un carattere (ride). Può fare molti altri ruoli, ma ha quella forza, quella fisicità. Io ho girato prima la parte con Amanda, quindi quella contemporanea, poi quella con lui e arrivò sul set che era molto stanco, perché aveva appena finito di girare il suo film, era passato alla promozione di Noah e, poi, al nostro set. Sono stato due giorni con lui nella sua casa e gli ho fatto vedere su YouTube dei video sulle convulsioni.

Quello effettuato con Amanda Seyfried è il ritratto di una donna contemporanea...
Era un ruolo molto scivoloso ma anche molto inseguito da attrici di serie A, però dietro quella fanciullezza di Amanda ho sentito che c'era tutto un mondo che io volevo esplorare. La figura di una donna che va a letto con molti uomini rischiava di far perdere il pubblico e non volevo che non avesse simpatia per lei, quindi la sfida era quella di empatizzare il personaggio, comprenderne le ragioni, partecipare al suo travaglio di autodistruzione e al rapporto che poi la salva. E Amanda ha un grandissimo talento.

Nel film viene detto che gli uomini possono sopravvivere senza amore e le donne no; secondo te è vero?
Io non potrei vivere senza amore, perché è il motore della vita, ciò che muove il mondo. Credo che le donne abbiano un istinto a cercare l'amore più spiccato degli uomini. Lo vedo anche attraverso mia figlia, che ha sei anni e ha un atteggiamento addirittura materno nei miei confronti.

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